POMARICO, (carta geografica)    (PROVINCIA DI MATERA) Basilicata          

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I SINDACI DI POMARICO

 

 

L'ISOLA FELICE CHE NON C' E'

3 aprile 2008
 

Leggete per favore in basso alcuni articoli apparsi recentemente sui giornali in Italia sull'andamento "politico" in Basilicata. 

Ripetiamo: Abbiamo fatto le rivoluzioni, abbiamo spazzato via i latifondiari ed il sistema fascista per finire nelle mani di questa gentaglia.

Ecco quindi  i nuovi principi e comandanti in Basilicata:

 

La Basilicata degli scandali

L’inchiesta della Procura di Potenza, a prescindere dagli esiti che si determineranno autonomamente nell’iter giudiziario, ha scoperchiato la pentola delle nefandezze della classe dirigente lucana
22 dicembre 2008 - Vincenzo Dambrosio.
 
Matera | L’inchiesta della Procura di Potenza, a prescindere dagli esiti che si determineranno autonomamente nell’iter giudiziario, ha scoperchiato la pentola delle nefandezze della classe dirigente lucana e di quella galassia “imprenditoriale” che a ridosso di essa si è formata e alle cui sottane si aggrappa per rimanere a galla a causa della propria insipienza. Non vi è la necessità di processi e condanne per poter asserire, con assoluta certezza, che la classe politica lucana ha sonoramente fallito: da quindici anni si è puntato tutto sulla svendita del territorio alle multinazionali nonostante i continui moniti del movimento ambientalista e di fette della società. Il risultato di queste politiche -con forti elementi di trasversalità interni al ceto politico- ci viene raccontato quotidianamente dai telegiornali nazionali e dalle più importanti testate giornalistiche.
 

I progetti di sviluppo (concetto sul quale più che mai occorre aprire un dibattito e una riflessione specie a queste latitudini) del centro-sinistra, dal modello “Marinagri” a “Tempa Rossa”, si risolvono in inchieste giudiziarie che confermano -almeno nell’impianto accusatorio- le tesi dei movimenti che ad essi si sono irriducibilmente opposti. Duemilacinquecento giovani che ogni anno vanno via dalla Basilicata, un tasso di disoccupazione del 25%, seimilasettecento cassaintegrati nel 2008, centocinquantadue aziende in crisi. La Basilicata è l’unica regione dalla quale, entro il primo anno, scappano anche i lavoratori immigrati giunti qui per le fatiche più umili. Questi dati rappresentano la condanna, senza possibilità di appello, per il PD lucano di Lacorazza e De Filippo e della galassia di nani che gli ruotano attorno. La Banca Mondiale afferma che in Italia la corruzione sviluppa un giro d’affari che ammonta a 50 miliardi di euro annui, bisogna essere consapevoli -bandendo la logica dell’altrove- che questo fenomeno interessa potenzialmente tutte le grosse movimentazioni di denaro pubblico delle nostre istituzioni.

Fanno molto male i pasdaran del Presidente della Provincia di Matera a far finta di nulla, nel palazzo della Provincia, si continua ancora una volta a minimizzare l’accaduto, come un anno fa, quando il medesimo dirigente finì agli arresti per un altro appalto concorso. Nella peggiore logica consociativa PD-PdL finalizzata ad imbavagliare la magistratura, il centro-destra ha inviato il proprio maitre a penser a solidarizzare con Nigro e Pietrocola con tanto di comunicato stampa. Preme rammentare ai campioni della minimizzazione che le valutazioni e le assunzioni di responsabilità politiche non si fanno in base al “penalmente rilevante”. Alla provincia di Matera, lo si denuncia da anni, c’è un problema grave di trasparenza che riguarda i settori più diversi, dalla viabilità alla formazione professionale ecc. Affrontare questo tema significa produrre atti pubblici che marcino nella direzione opposta a quella degli appalti concorso o dei recenti bandi del settore Formazione. Il Consiglio Provinciale, convocato per martedì 23 dicembre, deve affrontare questo tema e deve farlo partendo da una serrata autocritica del Presidente della Provincia sull’operato delle sue Giunte, accompagnata da quella dei pseudo-partiti che lo sostengono ad iniziare dalla sedicente sinistra.

La gente della Basilicata deve incominciare la tessitura di un nuovo alfabeto dei diritti che travolga come uno Tzunami della democrazia partecipativa lo stato di favore che hanno edificato a spese dei più deboli i neo feudatari di questa terra.

 

L'ISOLA FELICE CHE NON C' E'

3 aprile 2008

 

 di Anna R.G.Rivelli
da IL QUOTIDIANO DELLA BASILICATA

 

L’immagine di una Basilicata isola felice del Sud, così oleografica eppure così funzionale, va sbiadendo inesorabilmente sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che hanno scelto il disimpegno come estrema ribellione ad uno stato di cose. Suppongo che non ci vogliano i morti ammazzati per accorgersi che qualcosa non va e suppongo che ai morti ammazzati (quelli per cui altrove si invoca l’intervento dell’esercito) ci si arrivi solo dopo la lucida e costante elaborazione di un percorso che non mi pare qui del tutto estraneo. Ma prevenire sarebbe meglio che curare! Purtroppo al cittadino non resta che la parola, quella che non sempre riesce a far paura, ma anche quella che aggrega, quella che fa capire che, al di là di quel percorso, potrebbe esistere un’altra via se tanti, finalmente, gridassero il proprio disappunto piuttosto che starsene dolenti a contemplare i fatti e i misfatti che ci fanno rimpiangere spesso anche quel passato politico di cui volevamo a tutti i costi liberarci. E non parlatemi di Destra e di Sinistra, non di Centro. Non sputate sui morti, sui martiri, su quelli che hanno sbagliato e pagato in nome di un’ideale, su quelli che nelle piazze facevano sul serio, su quelli che scrivevano la storia spremendo il proprio sangue. Non parlatemi di Maggioranza e di Opposizione. Contate le poltrone giocate a morra, quelle vuote contro il numero legale e quelle piene di una logica clientelare e partitocratrica che supera ormai i limiti di qualsiasi spettro di decenza; date uno sguardo a questa democrazia oligarchica per cui destra, sinistra e centro sono solo una ubicazione e spiegatemi che c’entra tutto questo con gli ideali, con i programmi, con il popolo, con noi tutti. Dice bene il radicale Bolognetti, l’ultimo atto della Regione Basilicata è stata un’anticipata Epifania; la notte delle nomine, evidentemente distribuite secondo il criterio ludico dei quattro cantoni (chi si alza da una sedia trova posto in un’altra), ha dato ragione a chi con una lucida coscienza del vero si è sottratto in anticipo ad una spartizione figlia di padre ignoto, visto che cotanto parto è stato vigliaccamente affidato (o attribuito) ad un tutto femminile notturno travaglio solitario. Felici tutti, però; ci sono tante donne!!! E questo è il peggio, quello che offende di più. Evviva le donne in politica se le donne sono portatrici di valori, se non si piegano al sistema, se sanno riportare l’aria che viene a mancare, altrimenti non servono che a differenziare le toilettes in Parlamento.

 

C’è qualcuno che ha il coraggio di far crollare il muro, di interrompere il silenzio, di spezzare l’unione? Di credere che non serve restare per sempre incollati alla poltrona, perché nella storia si può restare con un solo atto di un giorno solo.

 

LA REGIONE CHIUSA CON UN FAX

LA BANCAROTTA DELLA BASILICATA

Da: La Repubblica del 25 novembre del 2008

sabato 29 novembre 2008 di Valerio Rizzo (Brigante Lucano)

Di seguito riporto un articolo del quotidiano Repubblica del 25 novembre del 2008.

La Repubblica — 25 novembre 2008 pagina 29 sezione: CRONACA
Ferrandina. La remota Baviera pubblica del Sud chiude con un fax. I manager delle multinazionali, in Valbasento, da mesi non vengono piú. Comunicano. Poche righe, inviate da qualche ufficio lontano, per spiegare che la crisi del mercato Usa, che il crollo delle Borse, che il calo dei fondi pensione. Che la Cina e che l’ India, eccetera. Pochi minuti, insomma, per abbassare i basculanti e appiccicare sul cancello l’ avviso agli operai: "Da oggi a casa". Il cuore della nuova recessione italiana, che silenziosamente respinge il Meridione nella povertà del dopoguerra, è sepolto in Basilicata, da qualche parte, tra Ferrandina e Pisticci.
Il "polo della chimica", voluto da Mattei e liquidato da Fanfani, è un deserto di capannoni pericolanti. Sconfinati parcheggi vuoti. Piazzali invasi da erbe seccate. Campi da tennis coperti da muschi e con la rete sfasciata tra i gelsi. Ciminiere spente. I vetri rotti rivelano stabilimenti fermi. Pochi custodi del nulla, abbandonati qui come cani, rossi e rabbiosi per il dolore e per la nostalgia dei loro olivi soffocati, minacciano chiunque si avvicini. Sulle colline di terra smossa sono appoggiati, quasi fossero concime, sacchi bianchi di amianto. Tra le fabbriche, riconvertite nel tempo alla meccanica, o a qualsiasi lavorazione avvelenata, si nascondono le case incompiute per i dirigenti mai trasferiti.
Le occupano famiglie operaie, cassintegrati decennali, neo disoccupati, giovani sposi precari. Si vergognano di vivere su al paese antico. Con "ottocento euri" al mese abitano le stanze di un fallimento, giú nel villaggio nuovo. Sotto le finestre, rivoli aromatici di trielina confluiscono nel letto prosciugato del Basento. I maschi, troppo vecchi per rifare la valigia, sperano che sotto il cimitero dell’ industria assistita si celi la necropoli di una bonifica eterna. Si consegnano all’ inquinamento, condanna e salvezza estreme, ostili ai comitati che dopo anni denunciano la morte di centinaia di colleghi intossicati. Tagliati, in pochi mesi, altri 1300 posti di lavoro. Nessuno si incatena ai macchinari, come un tempo, occupa strade dove non passa che qualche trattore, o fa lo sciopero della fame.

Contro chi, se un padrone ignoto si fa chiamare globalizzazione? Michele Sirago, appena licenziato, mostra un passo di Carlo Levi, confinato da Mussolini pochi calanchi piú in là: «Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo. Le stagioni scorrono sulla fatica, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria». L’ indicazione però, mezzo secolo dopo, è chiara. L’ industria politica fondata sullo Stato, o aggrappata ai favori di Colombo, crolla. La delocalizzazione straniera in Italia, chiude. La linea dell’ economia e della ricerca abbandona i meridioni e si concentra nei nord dell’ Occidente.

Il lavoro operaio si trasferisce negli Orienti dell’ Europa e dell’ Asia. La Basilicata, simbolo della parodia clientelare dello sviluppo affidato a catastrofi e ricostruzioni, precipita nel vuoto della rinuncia alla propria vocazione. «Ci vorrebbe un terremoto ogni dieci anni - dice lo storico Raffaele Giuralongo - perché il Sud ormai produce solo il cemento delle opere pubbliche. La recessione, qui, è una sentenza senza appello: essere l’ impresentabile e irraggiungibile retrovia tossica della riconversione verde del Nord». Non se ne parla, nell’ ottimista tivú padanizzata. Ma nel Paese che inizia a fare i conti con la spietatezza dei propri errori, c’è una terra dispersa già in caduta libera.
La Basilicata, venduta come modello della modernizzazione meridionale, è la regione italiana dove negli ultimi due anni ha chiuso il maggior numero di imprese. Detiene, in percentuale, il record dei posti di lavoro perduti. Segna l’ esodo piú massiccio di emigrati negli ultimi tre anni e il piú drammatico crollo demografico del Sud. È l’unica regione dove sono negativi sia il saldo naturale sia quello migratorio. In pochi mesi hanno perduto il lavoro oltre 7 mila persone, strappando al Piemonte il primato dei giorni in cassa integrazione. In tre anni si è passati da un crescita del 3% ad un recessione dell’ 1%. In nessun luogo l’indebitamento delle famiglie è esploso del 50%. Le imprese in crisi, da gennaio, sono 152, seimila i lavoratori in mobilità, ottomila i posti a rischio entro la primavera.

La Fiat di Melfi, campione europeo di produttività, ventila per il prossimo anno sei mesi di stop: novemila, con l’ indotto, gli operai che intravedono lo spettro dell’ impossibilità di pagare il mutuo. Eppure, questa, è la regione piú industrializzata del Meridione, quella che ospita lo stabilimento automobilistico più importante, quella dove lo Stato ha effettuato il piú grande investimento degli ultimi trent’anni. Naviga sul giacimento petrolifero di terra piú ricco d’ Europa, vanta il bacino idrico piú generoso del continente, la diga piú imponente. Sette distretti industriali, grazie al sisma del 1980, ospitano i gioielli dell’ imprenditoria nazionale e straniera.

Un tesoro di carburante, gas, acqua e motori, sfumato tra le mani di seicentomila abitanti rimasti poveri. «La Basilicata - dice il sociologo Davide Bubbico - ospita solo filiali, terminal produttivi, catene di montaggio. Come il resto del Sud, non ha generato imprenditoria, un progetto economico interno. Si fabbricano voti per la politica, non beni per il mercato. Non ci sono teste. Per questo la somma esplosiva delle crisi spazza via le aziende con una velocità impressionante. Resta una massa di ricattabili depressi: vittime di un sistema incompatibile con il mondo ridisegnato dal tramonto di un’ epoca». In nessun altro luogo, come in questo follemente sacrificato territorio contadino, si avverte oggi il senso di abbandono disperato che rioccupa le periferie del Paese.

I quotidiani locali aprono ogni giorno con il bollettino dei fallimenti e dei processi contro i truffatori di contributi. Da quattro mesi, per un viadotto pericolante, l’ autostrada è interrotta prima di Potenza. L’ interporto, dopo vent’anni di progetti, non si farà. Tramontato, dopo cinquant’ anni di dibattiti, anche l’ aeroporto. Trenitalia ha appena annunciato i tagli dei principali collegamento ferroviari. In molti paesi, nonostante la distribuzione pubblica di computer, non arrivano Adsl, segnale telefonico, metano. I negozi, il pomeriggio, aprono dopo le 17. Le case non si vendono piú e nel capoluogo è scoppiata la "guerra del pane" contro i gruppi di acquisto popolare che lo distribuiscono per un euro al chilo. «Se non fosse per oleodotti, acquedotti e vagoni di rifiuti - dice l’ economista Nino D’ Agostino - saremmo già isolati. Ci stiamo trasformando in una discarica-serbatoio, popolata da cassintegrati, vecchi, badanti rumene ed emigranti».

Il "distretto del salotto", fuori Matera, è lo specchio dell’ ignorato choc dell’ economia meridionale. Tre aziende di divani imbottiti, fino a tre anni fa, offrivano lavoro a 14 mila persone ed esportavano in tutto il mondo. Una è fallita, due oscillano tra contributi, ammortizzatori sociali e delocalizzazioni. Restano 3 mila occupati, a casa per settimane. Stabilimenti e magazzini sono sbarrati. «All’ inizio - dice Corrado Asquino, ex dipendente di un’ agenzia interinale - lottavamo con il sindacato per avere subito la liquidazione, invece della cassa integrazione. Uscivi dalla fabbrica e ti assumeva il laboratorio a fianco. In sei mesi sono spariti tutti». L’ abisso della smobilitazione affiora però nella zona industriale di Potenza.

A Tito Scalo, da settembre, hanno chiuso le multinazionali piú importanti. Tre nelle ultime quattro settimane. Americani e tedeschi se ne vanno: riportano il lavoro in patria, o nei Paesi dove la mano d’opera costa meno e i sindacati non esistono. Centinaia di famiglie non arrivano piú nemmeno alla seconda settimana. Le donne, fuori dai supermercati, vengono fermate con la bistecca sfilata dal vassoio e nascosta nel fazzoletto dentro la borsetta. Rimane il veleno nei terreni, su cui tornano greggi a pascolare, il business miserabile delle bonifiche a pagamento. Il Comune ha vietato l’uso dell’ acqua per dissetare bestie e campi. Sul cancello di un’industria abbandonata, un cartello dice "se il destino è contro di noi, peggio per lui".

Anche nella "Sinoro", metafora della rapace industrializzazione lucana, rimangono solo i custodi asserragliati. È il piú grande stabilimento cinese in Italia. Doveva trasformare l’ oro in gioielli. Vent’ anni di vita, venti milioni di euro pubblici scomparsi, tre fallimenti, tre nomi cambiati. Mai prodotto un orecchino, solo due corsi di formazione finanziati con 400 mila euro. Sei giorni fa, la grottesca richiesta italiana di risarcimento alla Cina. «Dobbiamo riconoscere- dice Antonio Mario Tamburro, rettore dell’ Università della Basilicata - che abbiamo sbagliato tutto. Non è un caso se questa regione e il Meridione si risolvono in un elenco di occasioni perdute. La recessione mondiale travolge prima i territori piú fragili, dove l’ economia è una finzione. Invece di lamentarci dobbiamo riconoscere che il drenaggio del denaro pubblico non funziona piú. E che la società del Sud implode per cinque ragioni: classe dirigente impreparata, industria nata vecchia, prodotti privi di innovazione, infrastrutture inesistenti, vocazione territoriale tradita».

Le conseguenze, con la frenata occidentale, sono drammatiche. Nove giovani laureati su dieci lasciano la Basilicata entro sei mesi. Quattro maschi attivi su dieci, negli ultimi tre anni, sono emigrati. Otto immigrati extracomunitari su dieci, spina dorsale di ciò che resta dell’ agricoltura, cambiano regione entro un anno. Una fuga senza precedenti, da una terra meravigliosa che si svuota nella distrazione assoluta del Paese. Nel Novecento se ne andavano poveri e analfabeti. Nel Duemila partono ricchi e laureati. Gli emigrati però, per la prima volta, trovano negli immigrati concorrenti piú convenienti di loro.

Il fallimento si nasconde lontano dalla culla. La stessa corsa all’ energia, in Val d’Agri, tradisce piú il profilo di uno scippo, che l’opportunità di un riscatto. Tra Viggiano e Sant’Arcangelo scorre l’80% del petrolio italiano, oltre il 10% del fabbisogno nazionale. Le compagnie pagano localmente le royalties piú basse del pianeta: 7%, contro il 50% di Paesi arabi e America del Sud. Poche centinaia i posti di lavoro, legati alla manutenzione delle condotte verso Taranto. Quantità di combustibile estratto e tassi di inquinamento sono affidati al monitoraggio degli stessi produttori. Regione e Comuni impiegano i proventi delle trivellazioni per tappare buchi e comperare consenso.

La cassaforte delle risorse naturali italiane, che i paesani chiamano amaramente "Lucania saudita", consumata per riprodurre il sistema del ricatto ai miserabili. «Milioni di euro - dice l’economista Pietro Simonetti - per sagre, lampioni, convegni e centri per il recupero dell’ arpa. Potremmo finanziare lo sviluppo, tagliare i costi locali dell’ energia, abbattere i tassi dei mutui, riconvertire le imprese, rifondare un modello economico capace di unire il Meridione attorno alle sue risorse secolari. La politica non ha ancora compreso la dimensione della crisi reale che ci investe: salva l’ Alitalia, si rianima sulla Rai, e non vede che il Sud è sull’ orlo di una rabbiosa mobilitazione di massa».

Anche Melfi, epicentro industriale tra Bari e Napoli, per la prima volta trema. Dieci settimane di cassa integrazione, nella Sata - Fiat di Lavello, tra luglio e Natale. I parcheggi riservati ai 5480 operai sono vuoti. Deserti i capannoni delle venti aziende dell’indotto. I piazzali interni traboccano di auto da consegnare. I dipendenti, anche questa settimana, raccolgono olive e castagne, o pigiano l’uva. Nel bar del distributore di benzina si cerca di capire perché, se oggi fallisce una banca a New York, domani saltano gli stipendi a Venosa. «Eravamo i giapponesi d’Europa - dice Libera Russo, impiegata - un esempio di qualità. Ma se fatica il Nord, alle prese con i tagli europei, difficile che qualcuno salvi questo Sud». Un annunciato effetto a catena.

Le imprese lucane, aperte per consumare i fondi pubblici, impiegano solo braccia. Sono qui perché anno ricevuto soldi, terra, uomini, sicurezza e assenza di diritti. La responsabilità, pur promessa, non è mai arrivata, come la ricerca e il portafoglio. «Il lavoro - dice Antonio Pepe, segretario regionale della Cgil - non si è trasformato in economia, l’ industria non è diventata progetto. Per questo, ora che alla politica mancano i soldi per l’ assistenza, l’ occupazione si estingue». La gente si era illusa di aver compiuto il salto nel consumo. A garantirlo, marchi come Fiat, Barilla, Ferrero, Parmalat, Coca Cola, Panasonic, Natuzzi, Eni, Total, Shell, piú le multinazionali della chimica e della meccanica mondiale.

Un caso unico, a sud di Bologna. Invece, all’ improvviso, il crollo secco che ridona al "Texas italiano" la sua identità di mediterraneo Meridione. «Il rischio - dice il vescovo di Potenza Agostino Superbo in un’assemblea di operai licenziati - è che una generazione senta perduta anche la propria dignità». Un appello estremo, subito ottimizzato in locale rissosità di partito. «Intanto - dice Anna Maria Dubla, presidente di "Ambiente e legalità" - i russi sono pronti a stoccare il gas nei pozzi esauriti della Valbasento e il governo federalista sfila alla Regione anche la competenza sulle concessioni petrolifere. La Basilicata, presa per fame, non può piú dire di no. Confonde il futuro, vende anche l’ ultima terra, chiude le fabbriche e si prepara ad essere discarica e ciminiera. Solo i disperati possono morire silenziosamente tra i rifiuti, o intossicati: il destino del Sud, che il Paese prontamente riconsegna, svuotato, a se stesso». Pochi, si salvano. Qualche grande contadino, un pugno di magnifici artigiani, alcuni ineguagliabili pastori, non piú di dieci vignaioli d’ eccezione, un gruppo di ragazzi e di donne, come la scrittrice Mariolina Venezia, che si ostinano a credere nella cultura e nella natura. Fedele Agata, a 70 anni, a Ferrandina sta costruendo una sella di cuoio "per non perdere una capacità". Il figlio spreme la "maiatica nera" nell’oleificio stretto tra le fabbriche fallite. Rino Botte, rientrato a Barile dopo una vita di gloria a Cremona, è ridisceso nelle cantine dell’ Aglianico. Non c’ è altro, oltre la "retorica dell’ impossibile", di mondiale. Botte invece fa, e se ci pensa si commuove, fino a piangere in pubblico. Pochi esempi, pigri ed eterni, soli. E nessuno che accetti di ascoltare la drammatica lezione dei maestri semplici. - GIAMPAOLO VISETTI

 

Tangenti petrolio: Basilicata, Pdl chiede elezioni

18 dicembre 2008 alle 15:46 — Fonte: repubblica.it

 

Il Pdl chiede le elezioni regionali in Basilicata.

Il senatore Egidio Digilio sollecita l’approvazione della legge finanziaria e poi il ritorno alle urne. “Le ricostruzioni giornalistiche del ‘sistema di malaffare sul petrolio lucano’, in attesa delle conclusioni dell’ennesima inchiesta della magistratura potentina — dice Digilio -, rilevano una situazione particolarmente allarmante che richiede innanzitutto una risposta politica perché i cittadini continuino a credere nelle Istituzioni regionale e locali e in chi le rappresenta”. Caustico anche il coordinatore regionale di Forza Italia, Guido Viceconte. “Pur non entrando nel merito delle vicende giudiziarie che vedono coinvolti diversi uomini del Pd lucano rispetto alle quali, per dare un nostro giudizio, attendiamo le decisioni finali della magistratura giudicante — rimarca Viceconte -, non posso non esprimere e confermare un giudizio estremamente negativo nei confronti del centrosinistra ed in particolare di questo governo regionale.

I problemi reali della nostra regione, certamente acuiti da questa crisi mondiale, rappresentano una congiuntura sfavorevole che dura da anni all’interno dell’economia lucana. Tutto ciò è evidentemente legato a delle responsabilità ben precise di chi, negli ultimi quindici anni, ha governato la Basilicata senza una capacità reale di rendere produttive le risorse finanziarie sia regionali che nazionali ed europee. Il centrosinistra si è messo in evidenza in questi anni soltanto per la sua litigiosità e non certo per la capacità di affrontare le problematiche più emergenti della Basilicata”.

AGI

 

The Economist: "Cristo si ferma ancora ad Eboli"

Pubblicato da Massimo Brignolo alle 09:56 in Diario

20 Agosto 2007

La criminalità organizzata italiana è l'argomento di questo Ferragosto: The Economist, prima della strage di Duisburg, aveva deciso di dedicare nel suo ultimo numero un articolo al 'nuovo' fenomeno con centro in Basilicata, utilizzando come spunto per un titolo diverso il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli.

"Cristo si ferma ancora ad Eboli" titola The Economist ed osserva "il paesaggio è lo stesso: aride colline grigie che scendono ripide sulla pianura dove scorre il fiume Agri. Anche Aliano, un gruppo di case in equilibrio sulle scarpate ha lo stesso aspetto di quando Mussolini inviò al confino Carlo Levi nel 1935".

"Ma", continua The Economist, "tutto intorno vi sono regioni sfruttate dal crimine organizzato" e "ora anche la Basilicata con i suoi 600.000 abitanti ha i suoi criminali".

Il richiamo è costituito dalle coltivazioni di frutta e dal boom turistico sulle coste dello Ionio; "i villaggi dell'alto Agri sono situati vicino ad un campo di estrazione del petrolio: quando iniziò la produzione, una decina di anni fa, arrivò un flusso di denaro pubblico. La regione ed i paesi condividono royalties che nei prossimi 15 anni dovrebbero raggiungere i 750 milioni di Euro".

Ma l'interesse criminale non è solo attratto da questi fondi e dal racket della costa: "contributi statali arrivarono dopo il terremoto del 1980 e un'altra tentazione arriva dai sussidi dell'Unione Europea all'agricoltura".

In conclusione The Economist riprende le parole di Luigi De Magistris, un magistrato di Reggio Calabria: "C'è un virus ma non c'è il vaccino. Esiste una collusione tra uomini d'affari e politici" e dove "le pubbliche istituzioni sono assenti o deboli, è la criminalità organizzata a dettare legge".

 

La corruzione fuori dall'agenda politica

«Forme di corruzione diffusa nei rapporti tra impresa e sfera pubblica hanno gonfiato la spesa, leso il buon funzionamento del mercato, ostacolato la selezione dei fornitori e dei prodotti migliori. L'entità di questa tassazione impropria, che da ultimo ricade sui cittadini, è di una gravità che sgomenta».
Antonio Fazio, governatore della Banca d'Italia, 1993.

Un giorno a caso. Dal Corriere della sera del 2 febbraio 2006, edizione di Roma.
A pagina 1, l'editoriale di Gian Antonio Stella dal titolo "Un'epidemia di camorra" evidenzia il record della Campania che, con 19 comuni sciolti per infiltrazioni della criminalità organizzata, concentra più della metà dei casi simili in Italia nell'ultimo anno (36). Pur nella consapevolezza del rischio di strumentalizzazioni in chiave elettorale dell'azione del Ministero dell'Interno (la Campania è amministrata dal centro sinistra), il dato è significativo, soprattutto se associato a quello degli ultimi 15 anni, in cui sono state 158 le amministrazioni sciolte per mafia: 71 in Campania, 43 in Sicilia, 34 in Calabria, 7 in Puglia, 1 in Basilicata e nel Lazio .
A pagina 10 viene riportata la denuncia del procuratore generale della Corte dei Conti, Vincenzo Apicella, in relazione alla norma dell'ultima finanziaria che prevede la possibilità di condono - pagando tra il 10% e il 20% di quanto contestato - a chi è stato condannato per danni erariali (corruzione e concussione) .
A pagina 17 viene riportata la "caduta del sindaco delle 4.500 licenze edilizie", con riferimento a Massimo Mallegni, primo cittadino di Pietrasanta, eletto nelle liste di Forza Italia, a cui vengono contestati almeno 51 episodi tra appalti controllati, lavori pubblici affidati direttamente, minacce ai vigili urbani. Poco più in basso viene riportato il caso dell'assessore all'urbanistica di Legnano, sempre di Forza Italia, Carmelo Tomasello, accusato di corruzione per 139 mila euro pagatigli da un costruttore. Nelle indagini sarebbe coinvolto anche il capo segreteria del ministro per le attività produttive Claudio Scajola, Giuseppe Guerrera.
Nella cronaca romana, a pagina 1 e a pagina 3, viene presentato lo scandalo dei lavoratori precari (circa 1500) della Regione Lazio, gran parte dei quali transitati per una delle società partecipate dalla Regione, Lazioservice. Si tratta di persone selezionate chissà come, che non hanno mai sostenuto un concorso, usate spesso per funzioni amministrative, e che ora "rischiano" di essere assunte in organico dalla Regione, senza alcune valutazione su esigenze della struttura e capacità del lavoratore.
Ancora, sempre nella cronaca cittadina, a pagina 1 e a pagina 9 vengono riportate le indagini in corso sulle Asl Roma B e C per circa 70 milioni (di euro) che mancano all'appello, probabilmente passati attraverso società fittizie, con la complicità di qualche dirigente pubblico e la distrazione di diversi politici.
Un'ecatombe giudiziaria? Una nuova tangentopoli? Crisi della politica? No, si tratta di noiosa routine per il nostro paese. Fenomeni come quelli appena riportati rientrano nella lunga tradizione italiana in tema di corruzione e cattiva commistione tra politica e affari.

 

Una classifica e qualche dato sulla corruzione
Secondo Trasparency International, organismo privato nonprofit che studia il fenomeno della corruzione a livello globale (www.transparency.org), l'Italia è al 40° posto nel mondo, tra 159 nazioni, per livello della corruzione. Al primo posto (che significa maggiore virtù) c'è l'Islanda, con un punteggio di 9,7 (il massimo è 10), all'ultimo Bangladesh e Ciad, con 1,7 (minimo 0). L'Italia ha un punteggio pari a 5. Dunque molto lontano da altri paesi come la Svezia (9,2), il Regno Unito (8,6), la Germania (8,2), gli Usa (7,6) e la Francia (7,5). Ma ci troviamo anche ben al di sotto di Spagna (7), Portogallo (6,5), Slovenia (6,1), Botswana (5,9), Cipro (5,7) e tanti altri. I dati si riferiscono al 2005, ma - almeno per quanto concerne la nostra posizione - non cambiano considerevolmente nel tempo.
Questa classifica è basata sull'indice di corruzione percepita, calcolato utilizzando interviste e studi su uomini d'affari ed esperti del paese. Dalle domande che sono state formulate - e che vengono aggregate nell'indice di corruzione percepita - si ricavano alcuni dati interessanti (le risposte date nel caso dell'Italia si riferiscono a circa 485 persone): la corruzione "incide in modo significativo" sulla vita personale e familiare per il 44% degli intervistati; nel sistema economico per il 92%; nella vita politica per il 95%; sulla cultura e sui valori della società per l'85%. A ciò si deve aggiungere che più del 70% degli intervistati ritiene che nei prossimi tre anni la corruzione è destinata a non diminuire e che, se potessero, gli intervistati la eliminerebbero primariamente dalla politica (29%), dai tribunali (18%), dalla sanità (15%), dalle amministrazioni che rilasciano concessioni (10%).
Un'indagine condotta dal Cirm (disponibile in www.transparency.it) completa il quadro della percezione degli italiani rispetto alla corruzione. I dati sono del 2001 ma anche in questo caso si può ritenere che essi non mutino significativamente nell'arco di pochi anni: secondo il 76% degli intervistati le istituzioni non difendono adeguatamente i cittadini da intimidazione e corruzione; solo il 2% (!) ritiene che non sia vero che l'illegalità è raramente punita; per il 93% vi sono ancora zone di corruzione inesplorate dalla magistratura, in particolare nella politica (34%), nella pubblica amministrazione (27%), nel mondo degli affari (21%).
Questi dati sono più che confermati da un'indagine svolta da Swg per Confesercenti nel 2003 (disponibile in brunik.altervista.org), secondo la quale il 90% degli imprenditori italiani è convinto che "il fenomeno della corruzione sia una pratica diffusa"; il 75% pensa che gli imprenditori siano disposti a pagare una tangente pur di avere un appoggio nella pubblica amministrazione (dato che - secondo Swg - era al 56% nel 1995); il 33% prevede un aumento della "pratica della tangente".
D'altra parte da un'indagine condotta dal Censis (1998) emerge chiaramente che il 13% degli intervistati - da un campione rappresentativo della popolazione italiana - pagherebbe una tangente "nel caso in cui la somma non sia sproporzionata". Così come il 16% ritiene ammissibile il comportamento di chi dichiara al fisco meno di quanto guadagna e il 32% giustifica l'imprenditore che evade le tasse "per salvaguardare i posti di lavoro della propria azienda".
A questo punto diventano veniali le affermazioni del 62,3% di un campione rappresentativo della popolazione italiana, secondo cui le raccomandazioni sono "utili a volte indispensabili", sono "diffusissime nel pubblico e nelle aziende private" (69,9%) e vanno usate "anche se la persona è inadatta" (63,1%) .

 

Ma cos'è la corruzione?
In senso giuridico la corruzione può essere definita come «la condotta illegale di un pubblico funzionario il quale, in cambio di denaro o di altra utilità effettivamente ricevuta o semplicemente promessa, compie atti di ufficio oppure agisce in modo contrario ai suoi doveri» . Nel caso in cui la remunerazione del funzionario pubblico produca atti contrari ai suoi doveri, è detta "propria", nel caso invece in cui faciliti atti comunque dovuti, è detta "impropria". Si chiama poi concussione quella condotta di un funzionario pubblico che, abusando del proprio ruolo, costringe o induce un privato a scambiare denaro, o altre utilità, con atti di ufficio (dovuti o no).
Per un'interpretazione più politica ci si può rifare al Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione (rapporto al Presidente della Camera dei Deputati del 23 ottobre 1996): «Indipendentemente dalle varie fattispecie legali che essa assume, [...] la corruzione è una forma di accordo fra una minoranza allo scopo di appropriarsi di beni che spettano alla maggioranza della popolazione [...]» .
In termini più teorici «la corruzione è un [...] deterioramento nel processo decisionale in cui il decisore (in una impresa privata o nel settore pubblico) consente a o domanda di deviare dal criterio che dovrebbe guidare il processo decisionale in cambio di una ricompensa, della promessa o dell'aspettativa di essa, mentre questi motivi che influenzano il suo processo decisionale non possono essere parte della giustificazione della decisione» .
Per avere un'idea dell'incidenza quantitativa del fenomeno, almeno per la sua componente rilevata a livello giudiziario, dunque minima, i dati del suddetto Comitato indicano in peculato (1000 denunce all'anno), concussione (500), corruzione (400), abuso d'ufficio (1500) le forme tipiche della corruzione. Riconducibili, tra l'altro, a procedimenti penali a carico - complessivamente - del 2% del personale statale, maggiormente concentrati nel Ministero delle finanze. Dato rilevante è che «in tutti i ministeri, il numero dei procedimenti disciplinari è inferiore (a volte notevolmente inferiore) al numero dei procedimenti penali avviati per fatti commessi da dipendenti nell'esercizio delle proprie funzioni» .
Da un punto di vista fenomenologico, la corruzione spesso si presenta con due tipiche caratteristiche: il coinvolgimento di una pluralità di soggetti; la tendenza a ripetersi nel tempo, in modo seriale e non episodico. In generale si può parlare di corruzione politica o burocratico-amministrativa, pur essendo le due intimamente collegate fra loro.
La corruzione politica coinvolge funzionari elettivi o di nomina politica, come possono essere assessori, dirigenti nominati con il meccanismo dello spoils system, amministratori di società pubbliche o a partecipazione pubblica ecc. Essendo sottoposti a verifica periodica, uno dei criteri con i quali verranno giudicati, in un sistema a corruzione diffusa, è la capacità di accumulare denaro e potere.
Vi è poi la corruzione burocratico-amministrativa. Infatti, non è solo la politica, con il suo ciclo elettorale, a determinare comportamenti diffusi di corruzione. La macchina amministrativa, che pure seleziona i suoi funzionari in base a concorso, i quali sono destinati a mantenere quella posizione a vita, è troppo spesso luogo e fattore di corruzione. Ovviamente in questi casi non c'è un motivo strutturale, come per la corruzione politica, ma sembra tutto essere legato al «puro e semplice tornaconto individuale. [...] Si rilevano tra i funzionari fenomeni gravissimi di corruzione con due caratteristiche: quella della serialità e quella della devianza collettiva. [...] Non si tratta di casi sporadici, di individui singoli, ma di gruppi interi e molto ramificati» . La distinzione tra corruzione politica e burocratico-amministrativa sfuma molto quando si osserva il processo con cui - in alcuni casi - la pubblica amministrazione sceglie i propri dirigenti, anche al di fuori dal meccanismo dello spoils system: con concorsi ad personam, commissioni pilotate, forme varie di informazioni riservate passate sottobanco al tal o al talaltro candidato perchè parte della cordata giusta. In questi casi oltre che dei partiti politici, l'ingerenza forte sembra essere anche dei sindacati.
«Pensiamo, in Italia, a come la crescita numerica dei dipendenti pubblici abbia creato uno straordinario potere nelle assunzioni clientelari. [...] "Io ti do il posto e tu sarai fedele a me, soltanto a me". E quindi il vero superiore dei beneficiati diventa il padrino di riferimento e nessun altro. Sotto questo profilo, perciò, il posto viene inteso come la terra avuta in concessione dopo una lunga attesa: "Ora finalmente l'ho e mi deve rendere". Ecco perchè limitare la rendita allo stipendio sembra uno spreco» .
E le connessioni tra corruzione politica e amministrativa possono assumere forme varie, proprio per la cultura che ne è alla base. Per i politici, infatti, vale il paradigma «più soldi uguale più potere, più potere uguale più clientele, più clientele uguale più soldi. Un circolo vizioso. [...] Se nell'arena politica diventa chiaro che chi ha più soldi può affermarsi più facilmente, e i soldi si procurano collocando le persone giuste negli assessorati giusti, se voglio far carriera politica mi adeguo» .
Basti ricordare le tre giustificazioni che venivano usate dai politici durante l'inchiesta Mani pulite: "abbiamo agito a fin di bene, perchè i partiti politici sono strumento fondamentale per la democrazia e hanno bisogno di risorse" giustificando dunque, oltre al reato di corruzione, anche il finanziamento illecito ai partiti; "lo fanno tutti"; "il tutto serve a ungere le ruote, aiuta il funzionamento delle cose" . Argomentazioni non molto diverse da quelle che potrebbero uscire oggi dalla bocca di alcuni protagonisti di scandali finanziari. E non molto diverse dalle cinque forme di auto-giustificazione della corruzione più ricorrenti tra gli indagati, riportate dal citato Comitato parlamentare: «Poiché i danni in termini di consumo, o in termini di domanda politica, si ripartiscono su di un'ampia popolazione (che, inoltre, è poco ascoltata), essi tendono a venire giudicati irrilevanti da coloro che perpetrano atti corrotti». All'irrilevanza del danno si aggiungono - come giustificazioni al comportamento corrotto - la necessità di "oliare" i meccanismi burocratici; la non aderenza della legge al costume, che sarebbe molto più permissivo; la ricerca di equità nel trattamento economico da parte dei dipendenti pubblici che si considerano sotto-remunerati; gli inevitabili costi della democrazia - leggasi dei partiti politici - che difficilmente possono venire sostenuti senza l'apporto di denaro raccolto in maniera illecita.

 

Dove cresce la corruzione
Il principale ambito in cui si concentra la corruzione è certamente quello della spesa dell'amministrazione pubblica per beni e servizi offerti da privati . Il tipico caso è quello in cui il prezzo determinato sia sensibilmente superiore a quello minimo accettabile dall'offerente, generando così un sovra-costo per l'amministrazione (e la collettività) e un profitto - da spartire tra corrotto e corruttore - per l'azienda. Certamente tale tipologia assume ormai anche forme ben più sofisticate, come è il caso dell'influenza «illecita anche nel corso della stessa formulazione della domanda pubblica» .
Altra tipologia molto diffusa è quella della corruzione relativa alle prestazioni e ai servizi offerti dalla pubblica amministrazione: concessioni edilizie, licenze, autorizzazioni al commercio, concessioni di crediti o finanziamenti agevolati, inserimento di farmaci nel prontuario, provvedimenti amministrativi che aumentano il prezzo di mercato di beni (come accade spesso nell'urbanistica), la vendita o la locazione o la concessione in gestione di beni di proprietà pubblica.
O il suo simmetrico: quelle situazioni in cui l'ente pubblico potrebbe esercitare potere autoritativo, anche attraverso l'imposizione di costi ai privati, ma se ne astiene proprio dietro pagamento di una tangente.
In generale, dunque, sembrano fertili per la corruzione tutte quelle aree di «intersezione tra pubblico e privato [...] per le quali la privatizzazione della forma giuridica sembra poter garantire l'elusione sia dei controlli amministrativi che di quelli relativi alle società private, nonché di quello del mercato» . Area di intersezione che è andata molto crescendo negli ultimi anni: secondo un'indagine del Dipartimento della funzione pubblica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (D'Autilia e Zamaro, 2005), il 96,4% delle amministrazioni pubbliche italiane ha avviato almeno un'esternalizzazione negli ultimi anni. Con una differenza generale tra amministrazioni centrali, che prediligono l'esternalizzazione dei servizi interni (ad esempio, gestione processi informativi) e quelle locali, invece molto più dedicate ai servizi finali (assistenza sociale o manutenzione del verde). Non deve essere dato per scontato che l'esternalizzazione porti in sé corruzione, ma certo non è tranquillizzante sapere che «solo in pochissimi casi [...] processi considerati di esternalizzazione sono stati oggetto di analisi economica e organizzativa preventiva, in pochissimi casi è disponibile documentazione contabile (accessibile) su costi associabili ai contratti di esternalizzazione [...]» e che la trattativa privata sia di gran lunga la forma più seguita per la scelta dal fornitore (63% dei casi) .
Più che l'esternalizzazione in sé, comunque, è proprio l'intersezione tra pubblico e privato a dover essere monitorata. Quello che accade nella sanità - massima dimensione di tale intersezione - è emblematico. Un direttore generale di Asl gestisce proprio ciò e il suo ruolo diviene cruciale per sintonizzare i diversi equilibri tra interessi generali, interessi della pubblica amministrazione, interessi privati. «Fatto sta che i manager in sanità servono deboli e duttili. Molto duttili. Non è un caso [...] che la loro durata in carica sia brevissima. 3 anni e 7 mesi in media, ha contato il Cergas Bocconi. Al Sud, è chiaro, durano un fiato» . E nel rapporto tra spesa sanitaria e indice di corruzione (che tendenzialmente migliora con il crescere della spesa pubblica per la salute dei cittadini) l'Italia ha una posizione assai peggiore degli altri paesi Ocse: con un spesa attorno al 6% del Pil, la media dell'indice di corruzione è 8, contro il 5 del nostro paese .
Più in generale, secondo Arnone e Iliopulos (2005), sono due i fattori critici che favoriscono la crescita della corruzione: quelle che gli autori definiscono le variabili di governance (qualità e quantità delle regolamentazioni, qualità e trasparenza della supervisione bancaria finanziaria, credibilità delle istituzioni, stabilità politica, legalità e criminalità organizzata), che per l'Italia sono più vicini ai paesi in via di sviluppo che ai paesi Ocse; il livello di istruzione, che nel nostro paese è assai più basso che nel resto dei principali stati membri dell'Unione europea, con il 55% di popolazione che arriva - al massimo - alla licenza elementare.

 

Corruzione e criminalità organizzata
Il rapporto tra criminalità organizzata e corruzione è altissimo, la correlazione è massima: «Il dialogo Stato/mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa Nostra non è un anti-Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela che vuole approfittare delle storture dello sviluppo economico, agendo nell'illegalità [...]» . Quelle storture favorite e determinate proprio dai cattivi comportamenti della pubblica amministrazione e della politica. Figlie - entrambe, corruzione e criminalità organizzata - di un tessuto sociale caratterizzato dalla contiguità tra componenti più o meno sane, che nella politica trovano gli spazi per esercitare il proprio potere: «[...] la mescolanza tra società sana e società mafiosa a Palermo è sotto gli occhi di tutti e l'infiltrazione di Cosa Nostra costituisce la realtà di ogni giorno. [...] La cosa più difficile da combattere è proprio questa contiguità, soprattutto quando diventa rapporto di interesse e potere» .
Così non deve sorprendere che recentemente a Palermo, nel quartiere Zen, dopo un'operazione di polizia si è scoperto che interi caseggiati non erano riforniti da utenze (luce e acqua) "normali" ma che era la mafia a fornirle (e si faceva pagare) . Un simile episodio sintetizza bene la questione: quanti funzionari delle società di gestione sapevano di queste utenze? quanti direttori di banca o delle poste, che vedevano dei versamenti, dei bonifici "sbagliati"? quanti responsabili dell'edilizia popolare? Ricorda Ada Becchi come la stessa definizione di "crimine organizzato" sia nata negli Stati Uniti quando, studiando gli effetti del proibizionismo, la preoccupazione maggiore fosse per la capacità delle bande di gangster «di esercitare un'influenza sulle istituzioni, e prima di tutto sulle istituzioni locali, avvalendosi sia di collegamenti etnici sia della notevole capacità di corruzione insita nella lucrosità delle attività realizzate» . Il legame tra proibizionismo, sviluppo del crimine organizzato e corruzione è ben analizzato nel testo della Becchi. Un legame diretto, forte, che consente di interpretare meglio le recenti strette normative sulla droga, la nota legge Fini inserita nel Decreto per le Olimpiadi: «I cosiddetti crimini senza vittima (ci si riferisce appunto al traffico di stupefacenti e alla prostituzione, nda) sono altamente remunerativi, se non vengono accertati, quando realizzarli è vietato per legge» .
E la notizia recente che ammonti a 3,6 miliardi di euro (un terzo di una legge finanziaria) il patrimonio sequestrato alla criminalità organizzata tra 1992 e 2005 lascia intuire quanto ingente sia tutto il resto, il non sequestrato, ciò su cui si reggono interi imperi fatti di terreni, titoli finanziari, imprese. Tanto più che questo dato è influenzato dalla consapevolezza che «dal 1992 c'è stato un lento ma inesorabile indebolimento della legislatura antimafia, tanto con i governi di sinistra che di destra», come ha dichiarato Nicola Gratteri, sostituto procuratore antimafia a Reggio Calabria .
E oggi, in Italia, i costi che le imprese sostengono a causa del crimine organizzato - intorno al 60% dei costi totali - sono secondi soltanto a Guatemala, Colombia, Bangladesh, Ucraina e Filippine .

 

I mali della pubblica amministrazione
Complessivamente è evidente che la corruzione si accompagna con una pubblica amministrazione inefficiente, con un rapporto fiduciario tra enti pubblici e cittadini che si assottiglia, con un mercato sempre più sommerso e irregolare (capace dunque di raccogliere e convogliare i frutti della corruzione, il denaro da riciclare). Non a caso gli italiani denunciano tra i mali del nostro paese corruzione e inefficienza della pubblica amministrazione praticamente con lo stesso livello di gravità, segnalati dal 18% della popolazione il primo e dal 23% il secondo .
In questo senso tutte le fonti sono concordi nel considerare nocivo l'eccessivo livello normativo del nostro paese, spesso poco coordinato e armonizzato, tale dunque da accrescere i margini di discrezionalità dei funzionari pubblici, e con essa la possibilità di arbitrii (ergo di fenomeni di corruzione) .
Grosse responsabilità cadono anche sul modello organizzativo e normativo della pubblica amministrazione in Italia, che privilegia i controlli di processo a quelli di prodotto. Un funzionario è valutato rispetto alle procedure che segue molto più che rispetto ai risultati che ottiene. Così procedure ineccepibili portano inesorabilmente al nulla di fatto. E sembra ancora insignificante il percorso avviato nella valutazione dei dirigenti (con quota - ancora marginale - di remunerazione ad essa dipendente), a seguito di alcuni - troppo vaghi - interventi legislativi (il decreto 29/1993), di una scarsa convinzione in attuazione degli enti pubblici, di una cultura del risultato e della meritocrazia del tutto inusuale per l'Italia: «[...] come fate a sapere quello che ha fatto un direttore in un anno? Perchè non è giusto dire che chi ha raggiunto questi 4 [obiettivi] è bravo: eppure è successo così! Ovviamente a questo punto si sono fatti tutti furbi e hanno detto, 'io sai che ti dico, che io do le carte d'identità a vista, oppure che io tengo aperto il sabato mattina'. Ma dobbiamo aprire per forza il sabato mattina! Eppure questo tipo di obiettivo è stato accettato per la valutazione [...]» .
E il sistema organizzativo statico, a compartimenti stagni, senza grandi trasversalità e scambi di informazioni (l'informatica è ancora una sconosciuta per buona parte dei dipendenti - e dei dirigenti - della pubblica amministrazione) favorisce la nascita e la crescita di micro-gruppi d'interesse: «quando il numero di funzionari corrotti supera una certa soglia, o comunque, quando i singoli funzionari corrotti non si sentono più isolati, si mette in opera un meccanismo di assorbimento dei funzionari inizialmente resistenti, che finisce per obbligarli a colludere» .
Anche il delicato passaggio del decentramento delle funzioni dallo stato agli enti locali sembra finora aver aggravato non poco la situazione, al contrario di quanto ci si potesse immaginare. Infatti, «la moltiplicazione e il rafforzamento dei centri di potere locale non ha dato luogo ad una corrispondente crescita di responsabilità della classe politica locale» mentre vanno denunciate, almeno fino a poco tempo fa e per la gran parte degli enti di minori dimensioni, «l'inadeguatezza e la politicizzazione dei controlli previsti per gli enti locali» . Così come acquistano insanamente peso il numero degli eletti nei vari livelli di governo: circoscrizionali, comunali, provinciali, regionali, parlamentari. Alla fine si parla di 149.593 eletti che si portano dietro 278.296 tra incarichi e consulenze, per un totale di 427.889 professionisti, che fa della politica, per numero di "addetti", un settore economico maggiore di quello del credito e delle assicurazioni, con una spesa diretta di 3-4 miliardi di euro l'anno .
Ma anche per quanto concerne il rapporto con la pubblica amministrazione, non può essere sottovalutato il rapporto tra corruzione e criminalità organizzata. «Parlando dei guadagni della mafia, non possiamo dimenticare gli appalti e i subappalti. Mi chiedo anzi se non si tratta degli affari più lucrosi di Cosa Nostra [...] Il condizionamento delle gare di appalto si realizza sia nella fase di aggiudicazione dei lavori (gli imprenditori mafiosi ben conoscono i meccanismi e sono in grado di influire sui funzionari preposti alle gare di appalto) sia nella fase di esecuzione delle opere. Chiunque si occupi di lavori pubblici, in Sicilia e nel Mezzogiorno in genere, sa benissimo di dover acquistare il materiale dal tale fornitore e non dal talaltro» .

 

Il ruolo delle imprese
E' abbastanza diffusa la percezione - confermata anche dai dati riportati all'inizio - che le imprese italiane non si tirino indietro di fronte alla richiesta di una tangente. Così come sembra evidente che a tale pratica si associ spesso quella di alterare le gare pubbliche attraverso la costituzione di cartelli, per porsi al riparo dalla concorrenza . Pure è forte l'incidenza del racket (pizzo), altra modalità di finanziamento delle storture del mercato, delle posizioni inefficienti, del sistema di corruzione diffusa (tra imprese e pubblica amministrazione). Vale la pena ricordare il pensiero di Giovanni Falcone, in proposito, secondo il quale «[...] non è ammissibile sostenere che versare una percentuale sia un atto innocente: implica, nella migliore delle ipotesi, il riconoscimento dell'autorità mafiosa» . Certamente, in una fase in cui tanti discutono dei mali del nostro capitalismo, la corruzione (e il suo rapporto con la criminalità organizzata) non può che essere «annoverata tra le distorsioni più preoccupanti» . Tanto più che, secondo recenti indagini, la burocrazia grava sui bilanci delle piccole e medie imprese per 11,5 miliardi di euro all'anno, circa 1.226 euro in media per addetto tra pratiche fiscali e di contabilità, adempimenti per la sicurezza ecc. Sono costi alti, che se non accompagnati da una completa trasparenza e dall'efficienza della pubblica amministrazione, facilmente inducono all'evasione fiscale, all'irregolarità del lavoro, ad atteggiamenti di complicità con le pratiche della corruzione .
Dopo Parmalat sembrano affermazioni ingenue, ma occorre ricordare che, durante Mani pulite, «quello che più ha sorpreso chi indagava è stato il fatto che anche grandi gruppi quotati in borsa avessero bilanci falsi: risultavano in possesso di rilevantissime disponibilità finanziarie extracontabili in Italia e all'estero. [...] Se ricordiamo poi il can can pubblicitario sulle società di revisione e sull'incisiva efficacia dei loro controlli, le timide giustificazioni che i loro dirigenti hanno balbettato poi di fronte alle prime contestazioni sull'esistenza dei fondi neri, "ma noi non siamo in grado di controllare niente per davvero"..., diventavano particolarmente ridicole» .
Gli scandali dell'estate 2005, che hanno coinvolto banche, immobiliaristi, autorità di vigilanza, movimento cooperativo, finanzieri considerati tra i top in Italia, hanno evidenziato la corruzione del mondo imprenditoriale, spesso legata a doppio filo a quella della politica. Qui la pubblica amministrazione non c'entra, in apparenza (anche se poi Bankitalia non è cosa troppo diversa). Ma come giustamente osserva Pier Camillo Davigo (2004), la storia dell'Italia è piena di casi in cui comportamenti sbagliati, o illeciti, da parte delle banche, che avrebbero potuto avere effetti pesantissimi, sono stati coperti dallo stato, in nome di un fantomatico interesse generale. E dunque, se il ruolo delle banche è pubblico, di diritto pubblico devono essere anche le responsabilità dei funzionari che vi lavorano. Proprio perchè i comportamenti clientelari e inefficienti dei funzionari di banca non sono secondari rispetto ad un'analisi della corruzione in Italia, che non può - proprio per questo - essere confinata solo alla pubblica amministrazione. Ha dichiarato Sergio Cusani a proposito degli scandali bancari del 2005: «Quello che viviamo oggi è l'epilogo di Tangentopoli. Con l'inchiesta sulle banche si è toccato il livello più alto del sistema del potere. [...] Nel '92, per salvare i banchieri e le banche, fu sacrificato un pezzo del sistema politico; oggi per salvare la politica vengono scaricate le banche. [...] Allora il sistema finanziava le imprese in modo diretto, assumendo su di sé ogni rischio attraverso la formazione di consorzi di collocamento. Dopo la legge bancaria del '93, gli istituti di credito hanno scaricato i rischi sulla clientela attraverso i bond, facendo i bilanci più ricchi della loro storia».
D'altra parte nel 2002 - a porte chiuse - il direttore generale dell'Abi, Giuseppe Zadra, affrontando il problema reputazionale del sistema bancario, ricordava ai dirigenti della sua associazione che trasparenza e correttezza sono gli asset su cui occorre investire maggiormente per il futuro, ma che tale investimento implicherebbe una rinuncia a «volumi di ricavo rilevanti», quantificati in circa 5 miliardi di euro .
E l'intreccio tra imprese, politica e corruzione passa per alcuni nodi strategici: il riciclaggio di denaro di provenienza illecita e - connessi a questo - i paradisi fiscali. Questi ultimi sono il principale alleato dei processi di corruzione. Le transazioni di grande importo, infatti, non possono che avvenire via banca e - nei casi di riciclaggio di denaro - sempre estero su estero, con preferenza per luoghi come Panama, Bahamas, Lussemburgo, Liechtenstein, Isole Cook, oltre alla solita Svizzera. In Italia sono 333 gli illeciti amministrativi nell'esportazione clandestina registrati dalla Guardia di finanza nei primi 11 mesi del 2005, 1006 i soggetti verbalizzati dalla polizia valutaria (per un sequestro di titoli pari a circa 800 milioni di euro), 596 i soggetti verbalizzati per riciclaggio, 255 le carte di pagamento false sequestrate nel contrasto al riclaggio .
Oggi siamo in una situazione moderna, in una nuova relazione tra economia, politica, stato e criminalità organizzata. Oggi «il mafioso non si maschera da imprenditore: è diventato un vero imprenditore, che sfrutta il vantaggio supplementare rappresentato dalla sua appartenenza a Cosa Nostra. Mutamento, questo, conseguente all'arrivo di un enorme flusso di denaro prima dal contrabbando di tabacco e poi dal traffico di droga» . Ciò sembra andare nella direzione di un'evoluzione del sistema della corruzione e della criminalità organizzata, da un modello all'italiana, basato sul controllo del territorio e il potere politico-economico, ad un modello statunitense, in cui il controllo è sui interi pezzi dell'economia legale e la priorità è meno il potere e più il lucro in senso stretto. A ciò si aggiunga l'effetto globalizzazione, o de-nazionalizzazione, che sta modificando molto anche usi e costumi del nostro crimine organizzato. E il tasso di corruzione delle nostre imprese quando lavorano nei paesi emergenti - dunque la loro disponibilità a versare tangenti ai pubblici ufficiali locali - è più alto che in Italia: l'indice calcolato da Transparency Internationale scende a 4 .
A livello locale resta forte il sommerso, quella componente di economia e lavoro che gira intorno alle irregolarità salariali (quando va bene) o a processi e prodotti illeciti. Secondo il Censis (2005), il 10% delle imprese italiane sono interamente "in nero", dato che non solo è spaventosamente alto in sé, ma che risulta anche essere in aumento, sintomo di «una crescita dimensionale dell'impresa sommersa, non più esclusivamente legata alla sub-fornitura e agli intermediari, ma direttamente proiettata sul mercato» .
E mentre l'Istat stima nel 15% sul Pil l'impatto del sommerso, secondo l'ormai celebre modello Schneider-Enste, i cui risultati sono stati pubblicati in un working paper del Fondo Monetario Internazionale, tale valore arriverebbe al 28% del nostro prodotto interno lordo.

Le colpe della politica
Secondo la Banca Mondiale, è necessario - anche se non sempre semplice - distinguere tra le attività di lobbying, lecite e parte del gioco della politica, e ciò che viene definito state capture, cioè il controllo di determinati gruppi di interesse sulla sfera pubblica di decisioni. E' questo il campo più odioso della corruzione, che passa dal piccolo abuso d'ufficio - legato allo scarso senso civico, all'ignoranza, al degrado sociale di un determinato territorio, fenomeno più sociologico che politico o criminale - alla trama sotterranea di vere e proprie strategie finanziarie, non trasparenti e già solo per questo quasi sempre criminali. E' ciò che gli italiani hanno visto fare - di recente - a Fazio, Fiorani, Consorte, ma che ha una storia antica nel nostro paese, che incrocia poteri economici, politici e militari (da Gladio alla P2, dalle massonerie all'affare BNL-Iraqgate). E che non vede immune l'attuale classe dirigente della sinistra, non solo per le intercettazioni a Fassino sul caso Unipol, piccola cosa, emblematiche più per il malcostume che altro, ma soprattutto per uno dei casi finanziari ancora troppo sottovalutati come quello Telecom, che ha visto un D'Alema forte protagonista: «Come è stato possibile che nessuno abbia avuto da ridire sulle varie scatole cinesi messe in cima alla Telecom, che hanno reso l'operazione poco trasparente? E' stato possibile perchè tra Colaninno e il premier Massimo D'Alema è nata un'intesa politica che ha ricevuto il sostegno di una parte importante del governo e dei più stretti collaboratori e uomini di fiducia del presidente del consiglio. Non per niente si è ironizzato sulla merchant bank di Palazzo Chigi, per la chiara propensione di chi ci abitava in quel momento a risolvere le questioni con decisione, piglio, determinazione, proprio come si usa nel mondo degli affari» . E questo "decisionismo", fatto di alleanza trasversali, come quella di allora tra D'Alema e Fazio, ha avuto implicazioni in tante vicende finanziarie dell'Italia, non solo il caso Telecom.
Ma non bisogna cadere nell'equivoco - stupido e pericoloso - di associare destra e sinistra in questa analisi. Le differenze restano, forti e profonde. E stanno proprio in quella zona grigia che separa la lobbying - a volte malinterpretata, sbragata, rozza, ai confini dell'illecito - che caratterizza in grande prevalenza l'operato del centro-sinistra, da una vera e propria strategia (deliberata, esplicita) di state capture, che è la massima esemplificazione dell'azione del governo Berlusconi (e delle reti connesse): dal condono edilizio allo scudo fiscale per i capitali usciti irregolarmente dal paese, dalla depenalizzazione del falso in bilancio all'esaltazione, da parte del premier, dell'economia sommersa, fino alle piccole misure i cui effetti entrano nella vita quotidiana di cittadini e imprese, come nel caso della legge ex-Cirielli che ha ridotto da 10 a 6 gli anni di prescrizione per reati tributari - fondamentali per la tenuta del sistema fiscale e di solidarietà sociale - quali l'emissione di fatture false (4394 casi nel 2003/4), dichiarazioni fraudolente (3412 casi), occultamento o distruzione di documenti contabili (1756) e altri, per un totale di circa 12 mila reati tributari accertati dalla Guardia di Finanza nel 2004 . «La riforma elettorale è solo l'ultimo colpo: in cinque anni Silvio Berlusconi ha invertito il processo di rinnovamento cominciato con mani pulite», ha scritto il Washington Post .
Senza dimenticare tutte le "incongruenze" nei comportamenti in sede internazionale, come la firma del programma di lotta al terrorismo nell'ottobre 2001 (subito dopo l'11 settembre) immediatamente seguita dall'approvazione dello scudo fiscale, e poi dal rifiuto di sottoscrivere il Mandato di Arresto internazionale .
Però anche il centro sinistra ha delle responsabilità. Ad esempio - quando era al governo - avendo «riformato i reati finanziari consentendo che l'annotazione in contabilità di fatture per operazioni inesistenti non fosse punibile se non influenzava oltre una certa soglia la dichiarazione dei redditi, con ciò consentendo di portare fuori bilancio somme in contanti utilizzabili per qualunque fine» . E - una volta all'opposizione - non sembra esserci stata quella presa d'atto della necessità di cambiare regole del gioco, di superare il machiavellico uso di mezzi impropri per fini discutibili. E' difficile farlo contro un avversario che fa dell'illegalità e dell'uso smisurato di risorse finanziarie il suo primo punto di forza, ma di certo non si può pensare di continuare a concepire una politica di sinistra in cui il direttore di una grande cooperativa dichiara: «per 43 anni, quando il Partito chiedeva, io eseguivo, perché pensavo avesse degli interessi superiori» .
Questo è l'errore strategico di fondo, emerso chiaramente anche nella gestione mediatica del caso Unipol. Non si può fornire a chi fa dello state capture la propria strategia, l'occasione di affondare in modo populistico sulla questione morale. Se non si coglie la necessità di ciò in chiave di riforma della politica, almeno lo si colga in chiave elettorale. Se neanche a questo si riesce ad arrivare allora vuole dire che si stanno metabolizzando brutte abitudini e gli anticorpi democratici si vanno perdendo.
Sta di fatto che sembra incontestabile che la moralità della politica italiana non è mai stata così bassa come in questo periodo. Lo scandalo non riguarda più, soltanto, i rapporti tra politici (siciliani e qualche volta nazionali) e mafia, come si era abituati a vedere nelle fiction anni '80, e neanche soltanto leader di partito e grandi imprese, come è stato il caso principale durante Mani pulite .
La rincorsa alla visibilità personale, la necessità di grandi risorse finanziarie, hanno abbattuto i residui scrupoli morali e culturali di chi pensava fosse opportuno mettere al centro i contenuti, dedicare tempo e spazio alle relazioni. Ora, se si vuole fare di mestiere il politico (e uno dei problemi principali è proprio nel ritenere possibile ciò), occorre acquistare spazi pubblicitari, produrre materiali patinati e costosi, organizzare eventi mondani. E non c'è neanche più il partito a mettere regole e dettare condizioni, ormai i partiti sono solo un brand, né più né meno, e il senso di appartenenza non è diverso da quello attuale dei calciatori per le squadre di serie A.
L'investimento per essere eletti è sempre più alto: di recente il tetto massimo di spesa è stato innalzato a 2 milioni di euro per candidato, circa nove volte più del limite precedente (226.740 euro). In più, è stato alzato - da 6.500,24 a 20.000 euro, circa il triplo - il limite dei contributi ottenuti per la campagna elettorale che vanno resi pubblici. Dunque si spende molto di più del passato e si è assai meno trasparenti .
Ma se si spende tanto, è necessario veder aumentare anche il ritorno dell'investimento. E' ormai noto che un parlamentare europeo italiano guadagna più dei suoi colleghi (il 77% di un suo collega tedesco, l'81% di un inglese, il 137% di un francese, il 278% di uno spagnolo), ma forse è meno noto che un consigliere regionale guadagna in media poco meno (dunque sempre più di un parlamentare europeo tedesco) e che - ha dell'incredibile - un presidente di circoscrizione di Roma guadagna il 30% in più di un parlamentare europeo spagnolo .
E, insieme alle indennità, record in Europa, crescono gli appetiti per poltrone, commissioni, incarichi in società a partecipazione pubblica. Secondo uno studio recente, nel periodo 1976-2002 vi sono stati 104 politici negli organi di amministrazione di 109 società quotate in borsa, con un numero di connessioni pari a 195. La presenza dei politici sembra influenzare in modo rilevante queste imprese rispetto alle loro concorrenti: hanno maggiore facilità di accesso a finanziamenti bancari ma hanno performance economiche (di redditività) inferiori .
Torna così di moda la lottizzazione, che inasprisce lo scontro di competenze tra stato ed enti locali, come nel caso delle nomine dei presidenti delle autorità portuali, che Lunardi voleva avocare a sé con una apposita legge (che Ciampi, però, si è rifiutato di firmare) e allo stesso tempo unisce come poche cose destra e sinistra.
Il ritorno dell'investimento di una carriera politica, poi, è fatto anche di commesse e contributi che possano arrivare a quello che si considera il proprio elettorato. Illuminante, in materia, la struttura del bilancio della Regione Lazio, di recente modificata: fino al bilancio 2006, con un meccanismo che è esploso sotto la giunta Storace, erano allegate al documento di previsione delle spese le fantomatiche "tabelle", un elenco di contributi da erogare senza alcuna ratio settoriale o geografica se non il dover accontentare le clientele politiche di ciascun consigliere regionale. Una valutazione sull'impatto di tale prassi, in termini di irrazionalità della spesa e di impossibilità di discussione delle priorità, viene da sé .
Così non solo i politici italiani costano alla collettività più che nel resto d'Europa per stipendi e benefit, ma sono anche indotti dal sistema che reggono (e che li regge) a rosicchiare il più possibile dalla propria posizione di privilegio per sé, amici e sostenitori .
La necessità di impostare un cambiamento, di metabolizzare un diverso modello della politica, non potrà mai venire da questa classe politica, senza distinzioni strutturali tra destra e sinistra. E il discorso coinvolge pienamente anche i sindacati e l'associazionismo collaterale, tutt'altro che immuni dalla sindrome corporativo-opportunistica di chi genera e accetta fenomeni di corruzione.

 

I costi della corruzione
Il costo diretto, legato alle somme concusse, è il minore. Consegue dalla corruzione una minore efficienza della spesa pubblica e una maggiore distorsione delle regole di mercato. Il concusso riverserà le spese della corruzione sulla pubblica amministrazione, la fornitura per la quale ha vinto l'appalto sarà inferiore - a parità di prezzo - in qualità o quantità rispetto al previsto. Le imprese sane, che non accettano di entrare nel "mercato della corruzione" non riusciranno ad entrare in nessun altro mercato.
Vi sono poi i costi sociali. «Dal punto di vista della tenuta sociale del paese si crea una situazione nella quale ci sono persone che possono ostentare un tenore di vita assolutamente non compatibile con i loro redditi apparenti. Questo crea una vasta percezione del senso di illegalità, e di impunità, di questi comportamenti» .
In ogni caso - proprio per questi motivi - non sarà mai possibile recuperare il danno della corruzione. Né per il suo valore monetario, perchè spesso sarà stato distribuito su più strade difficili da seguire, né tantomeno per quella parte di costo non monetario, che sarà quasi sempre la principale .
Vi sono poi i costi in termini di inefficienza complessiva del sistema sociale ed economico. Si pensi alla selezione avversa dei talenti, allocati sui mercati in maniera spesso inversa rispetto a competenze e capacità. Oppure al fatto che «alcuni milioni di persone concorrono sulla base di una sostanziale omologazione dei valori e delle regole (invece che sulla base di un mero calcolo economico, come accade per altri tipi di fiancheggiatori) a definire l'area in cui la criminalità ha potuto muoversi indisturbata o addirittura trovare concreto sostegno» . Ancora, da tenere in considerazione, il costo sociale ed economico della disoccupazione da criminalità, tale per cui «il lavoro criminale non è spesso un'alternativa a un lavoro legale, ma una sua premessa o un suo corollario» .
Non mancano, comunque, anche i costi calcolabili da un punto di vista meramente economico. Come dimostrano Arnone e Iliopulos (2005) esiste una relazione inversa tra livello di corruzione e:
qualità del sistema imprenditoriale (politiche di sostegno alla nascita di nuove imprese, minori giorni necessari per la loro costituzione, bontà dell'ambiente imprenditoriale ecc.); riduzione del costo del capitale (che chiama in causa anche il ruolo del sistema del credito); ammontare e tasso di crescita del prodotto nazionale lordo; rischio di investimento; investimenti diretti esteri; ammontare delle entrate fiscali.
Si tratta di variabili rispetto alle quali l'Italia conosce profonde criticità, anche se in alcuni casi (costo del capitale) si avvantaggia - almeno a livello generale - dell'appartenenza all'Unione europea, che certo non può evitare che poi a macchia di leopardo (basta confrontare i dati relativi al costo del capitale al nord e al sud) le stesse relazioni emergano con prepotenza.
In particolare, in tema di investimenti e sviluppo, va riportata la stima che all'aumento di un punto percentuale dell'indice di corruzione, gli investimenti diretti esteri subiscono una diminuzione dell'undici per cento. Si tratta di un dato che racchiude bene, nell'aridità delle percentuali, tutte le opportunità non colte dal nostro paese.
Ma forse i costi principali della corruzione sono nell'instabilità politica (che da causa può anche diventare effetto della corruzione, in un drammatico circolo vizioso) e nell'incapacità, che ne deriva, di cogliere potenzialità di sviluppo: «Se si osserva, ad esempio, cosa negli ultimi vent'anni hanno fatto Paesi come l'Irlanda, la Spagna e il Portogallo, ma anche la Finlandia, che da Paesi poveri quali erano sono usciti dalla trappola della povertà grazie agli aiuti dell'Unione europea e alle proprie politiche di sviluppo, non si possono che trarre alcune chiare conclusioni sul peso che istituzioni politiche corrotte e la presenza del crimine organizzato (che si sostengono a vicenda) hanno non solo nel depredare un Paese delle proprie risorse, ma soprattutto nel privare le persone di un futuro prospero e libero» .

 

Alcune soluzioni contro la corruzione
Da un punto di vista tecnico e normativo sono molte le pagine scritte per proporre soluzioni chiare e circostanziate al problema della corruzione. Si possono raggruppare per temi principali.

Apparato normativo
Queste proposte mirano a modificare l'apparato normativo, non nello specifico, ma nella sua struttura. Si concentrano sulla riforma della macchina giudiziaria e investigativa e sulla riduzione del numero delle leggi, dovuto anche all'anomalia della storia politica italiana, contraddistinta da due grandi blocchi, uno permanentemente di maggioranza (la democrazia cristiana) e l'altro permanentemente di opposizione (il partito comunista), che avevano necessità di mediare il conflitto attraverso un'estrema fertilità legislativa .

Pubblica amministrazione
Si mira ad una maggiore efficienza ed efficacia dell'azione delle amministrazioni pubbliche. Dunque ridurre il numero dei dipendenti pubblici, dei dirigenti e dei funzionari, e pagarli meglio, con più benefit, creando senso di appartenenza e restituendo dignità al lavorare per lo Stato. Puntare ad un rafforzamento dei corpi tecnici per ridurre il ricorso agli esterni, privilegiando nelle carriere il criterio della meritocrazia su quello dell'anzianità. Introdurre regole - procedurali più che normative - migliori per i concorsi, per evitare meccanismi di selezione avversa. In generale: passare dai controlli di processo ai controlli di prodotto: è importante valutare la proficuità della spesa oltre che la sua legittimità .

Conflitti di interesse
L'obiettivo in questo caso è prevenire il fenomeno corruttivo evitando che si creino i presupposti, le situazioni tipo che lo alimentano. Occorre tornare dunque sull'ineleggibilità parlamentare, l'incompatibilità, il divieto di svolgere attività derivanti da rapporti di impiego pubblico o privato ed altre attività incompatibili con la carica ricoperta. A tal proposito merita menzione il caso inglese, che restringe la possibilità per ministri e dirigenti pubblici (alti) di assurgere incarichi nel settore privato anche una volta abbandonata la carica governativa . Occorre poi regolamentare meglio il meccanismo dello spoils system, che non è sbagliato in sé, ma va arginato nelle sue applicazioni estreme, puntando in primis alla salvaguardia del buon funzionamento della operatività amministrativa, che invece rischia di risentire fortemente di cambi continui nei vertici (cinque anni possono essere assai pochi per impostare, testare e mettere a regime procedure e operazioni complesse). Anche l'uso di codici di comportamento, di deontologia - se associato a tutto il resto - può facilitare, soprattutto a fini culturali e formativi.

Lobby e politica
Si vuole dare trasparenza alle finalità dei diversi gruppi di interesse e ai loro rapporti con i politici. A tal fine si potrebbe copiare dall'esperienza Usa che obbliga tutti i mediatori, faccendieri ecc. a registrarsi come tali presso le istituzioni parlamentari . Rispetto a tale proposta sembra interessante ricordare la recente vicenda del lobbista di Washington Jack Abramoff, condannato per frode e corruzione, avendo sottratto circa 80 milioni di dollari a diverse tribù indiane (di cui avrebbe dovuto curare gli interessi) per ingraziarsi deputati e senatori . Nonostante i forti limiti della reazione del governo Usa a tale episodio, non si può sottovalutare il fatto che proprio grazie alla trasparenza delle informazioni relative alle attività di lobbying il caso è potuto venire allo scoperto e i responsabili essere perseguiti in tempi rapidi.

Finanziamento pubblico ai partiti
Nella necessità di controllare i flussi finanziari verso i partiti politici, arginandone gli appetiti illeciti e omogeneizzando le risorse a disposizione delle diverse forze politiche, nasce la proposta di ridiscutere, ripensandolo, il finanziamento pubblico ai partiti. Tale proposta è sostenuta e ben argomentata anche da Salvi e Villone (2005), con alcuni distinguo rispetto a partiti che superino una certa soglia e attuino procedure - verificabili - di reale partecipazione e democrazia interna. Un altro importante principio applicato concretamente nell'esperienza inglese riguarda il finanziamento statale della comunicazione attraverso i media (radio e televisioni), ponendo anche dei limiti molto stretti all'uso di tale propaganda da parte dei soggetti politici. Questo è considerato come il principale fattore del basso livello di corruzione della Gran Bretagna .

Cultura e istruzione
Qui l'esigenza è costruire un humus adatto alla lotta alla corruzione e a prevenire il fenomeno presso le future generazioni, diffondendo la cultura della legalità, il senso civico, la consapevolezza dei propri diritti, la solidarietà sociale. Merita menzione a tal proposito una notizia di cronaca milanese: scoperti 144 truffatori su 450 "sospetti" a seguito dei controlli eseguiti dalla Guardia di Finanza. Si trattava di persone che dichiaravano redditi sotto soglia per ottenere affitti agevolati, esenzione da tasse e ticket sanitari ecc. ma che erano più che benestanti, i cui nominativi sono stati segnalati da Asl, scuole, uffici giudiziari ecc. Una percentuale del 32%, che lascia intendere che una maggiore rete sociale di sorveglianza ma anche di denuncia potrebbe produrre importanti effetti .

Evasione fiscale
E' uno dei principali mali dell'Italia. Sono molte le proposte per combattere l'evasione fiscale, che determina una distorsione nel sistema di monitoraggio sui conti delle imprese (tutto teso a valutare l'adempienza tributario e non la trasparenza e la correttezza delle registrazioni contabili) e nei comportamenti di "controllo sociale" (che non recepiscono come anomala una mancata corrispondenza tra reddito presunto e reddito apparente). Rispetto alle persone fisiche esistono degli accorgimenti che potrebbero in breve tempo produrre forti benefici: «Uno è la tassazione con cifra fissa per atto a prescindere dal valore della transazione. Un altro la prelazione dello stato. In questo caso il funzionario pubblico può dire: "Veramente hai venduto questa casa per cento milioni? Allora per cento milioni te la compra direttamente lo stato". In questo modo nessuno dichiara un valore troppo basso, perchè altrimenti si ritrova a ricevere per davvero cento milioni mentre poi lo stato rivenderà la sua casa a un valore maggiore sul mercato immobiliare» . Rispetto alle imprese, basterebbe riportare in Italia sistemi di prelievo fiscale che esistono già in Europa, su base presuntiva prima ancora che supportate da controlli stringenti . Ma assieme al contrasto all'evasione fiscale diffusa, occorre seriamente combattere il riciclaggio e i paradisi fiscali.

Politica e democrazia
Last but not least, la politica. Occorre cambiare le regole di questo "gioco", se si vuole farlo funzionare meglio. A partire da una questione che ancora non è scontata in Italia, come la segretezza del voto . Oppure, andando su questioni più complesse e strutturali, l'accesso alle cariche elettive, che dovrebbe essere limitato nel numero di mandati, e la retribuzione delle carriere politiche, che per quanto visto andrebbe di molto ridotta, quanto meno allineandola a quella degli altri paesi dell'Unione europea. Il tutto dovrebbe pertanto incentivare una carriera politica "di servizio", e non "di rendita", come è oggi. Fare politica a tempo pieno dovrebbe essere qualcosa di temporaneo nell'arco della vita dei cittadini, una parentesi nell'attività lavorativa .

Non si tratta di proposte rivoluzionarie. Certamente sono importanti riforme che delineano linee di indirizzo nuove, in grado di incidere sul modello di sviluppo e sulla qualità della vita in Italia. Ma non implicano né particolari complessità tecniche né approcci ideologici di parte. La loro portata è potenzialmente trasversale, in grado di coinvolgere forze liberali, progressiste, ma anche conservatrici, di parte, facendo leva sul tema generale della correttezza delle regole del gioco e della trasparenza ed efficienza nella gestione della cosa pubblica. I principali nemici ne sono l'inerzia di alcuni, la connivenza di altri e la cultura della de-responsabilizzazione che regna sovrana nel nostro paese. Ne è triste dimostrazione il magro bottino del lavoro svolto dalla Commissione speciale per l'esame dei progetti di legge recanti misure per la prevenzione e la repressione dei fenomeni di corruzione. La Commissione, attiva dal 1997 al 2001, costituita su iniziativa dell'allora presidente della Camera dei Deputati, Luciano Violante, a seguito del rapporto del Comitato di studio di cui si è già detto, ha potuto registrare il compimento di una sola legge, «concernente il rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare [...]. Il bilancio esiguo di questa attività legislativa è dimostrazione della difficoltà di affidare alla norma scritta i complessi meccanismi della prevenzione dell'illecito, ma anche delle culture eccessivamente "garantiste" pur al cospetto di pesanti conseguenze prodotte nei confronti del pubblico interesse» .

 

Qualche conclusione
Il programma dell'Unione contiene, in 281 pagine, sei volte la parola corruzione, due volte la parola mafia, sei volte (nelle stesse pagine) il termine criminalità organizzata. A nessuno di questi termini è associata un'analisi degna di nota e tanto meno una proposta significativa.
Un errore? Secondo quanto è stato esposto sembra di sì, anche perchè, volendo mantenere il punto di vista di chi misura tutto in rapporto al prodotto interno lordo, la corruzione e la criminalità organizzata pesano molto in Italia. Quanto, è difficile dirlo con precisione. Ma si possono fare delle ipotesi di buon senso: partendo dal sommerso riconosciuto, che oscilla tra il 16% e il 28% del Pil, aggiungendo una quota di spesa pubblica pari ad almeno il 20% (ottimistica, ricordando che si è accertato che il 2% del personale statale è coinvolto in reati connessi alla corruzione), dunque a circa il 10% del Pil, si arriva ad un peso dell'economia corrotta e criminale tra il 26% e il 38% del nostro prodotto interno lordo. Un quarto, forse un terzo della nostra economia è fuori dai circuiti delle regole. Varrebbe la pena dedicarci almeno un capitolo di un programma di centro-sinistra?
Allora sono due le cose: o siamo di fronte ad una strategia strisciante, che mette questi problemi al centro di azioni indirette, ma sembra tutto poco probabile e certamente scarsa ne sarebbe l'efficacia, oppure siamo di fronte ad un'amnesia collettiva. Certamente, a parere di chi scrive, è corretta l'analisi di Fabrizio Barca riguardo alla debolezza della classe politica italiana, che pure negli ultimi anni è stata promotrice di riforme importanti del paese. «Alle riforme e all'entrata nell'euro che le ha accompagnate e spronate, si è giunti per stato di necessità, attraverso l'azione di alcune, poche, figure che, a un tempo, si sono fatte interpreti e hanno "strumentalizzato" il severo giudizio internazionale ed europeo. Ma ciò è avvenuto senza che si affermasse nelle classi dirigenti politiche, sociali, economiche e culturali un comune sistema di valori e di cognizioni che interpretasse il cambiamento come una sorta di "terzo Risorgimento", come la rimozione degli ostacoli storici allo sviluppo del nostro capitalismo e della nostra società. E' mancato, insomma, sul piano sia culturale sia politico, un nuovo "compromesso", che rinnovasse quello del dopoguerra e che desse certezze ai cittadini e alle imprese» .
Inadeguatezza, autoreferenzialità, debolezza culturale della classe politica attuale sono tutti fattori importanti, ai quali va aggiunto il ruolo non secondario dei media, altra espressione dell'anormalità dell'Italia rispetto a conflitto d'interesse e inquinamento delle regole del gioco della democrazia . Occorrerebbe, dunque, un'azione forte di rinnovamento della politica e di diffusione della cultura della legalità (che ha poco a che vedere con le ruspe di qualche sindaco e la mano forte di qualche prefetto), ricordandosi che «le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati» . E che, ad oggi, nella risposta alla corruzione «l'anello debole è la fiacchezza della sanzione collettiva, da parte degli onesti, nei confronti di chi opera con scarsa correttezza» .
Su Repubblica del 28 gennaio 2006, a pagina 52-53, viene riportata una lunga conversazione tra Eugenio Scalfari e Paolo Flores D'Arcais sulla questione morale. Alla fine, Scalfari - in risposta agli accenti critici di Flores D'Arcais rivolti alla classe dirigente del centro-sinistra - chiude così: «ma che cosa pretendi? Che Fassino, D'Alema, Bersani, Sposetti, facciano un corteo vestiti da penitenti, con te che con la frusta a sette code da dietro gli dici: passo più svelto, e attraversino le vie di Roma, di Milano eccetera, spargendosi le ceneri in testa? Ma via, non esageriamo con questa cosa». Nell'interesse del paese, delle giovani e future generazioni, dell'ambiente naturale che ci circonda, di quegli ideali di solidarietà e giustizia che ancora muovono l'elettorato di centro-sinistra, a nessuno interessa un fico secco dell'espiazione dei dirigenti del centro-sinistra: è sufficiente che chi ha perso le elezioni dopo aver governato male, ha favorito - senza portare una vera opposizione - la deriva populista del centro-destra, ha assecondato biechi disegni di malafinanza, lasci la politica, faccia spazio alle nuove generazioni, ritorni alla sua professione, se ne ha una. Solo così si creerà quel dinamismo sociale e culturale in grado di portare rinnovamento della politica e rafforzamento della democrazia, dunque contrasto alla criminalità organizzata e alla corruzione, piaghe della nostra società che nessuno può più permettersi di sottovalutare.

Riferimenti bibliografici

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L’Unità, 20 dicembre 2008

 

Casta lucana. La questione morale affonda la Basilicata

di Claudia Fusani

 

 

I 113 faldoni e i 33 indagati dell'inchiesta giudiziaria Toghe lucane. Oppure il miliardo di barili di petrolio nella pancia della Basilicata che sono l'8 per cento del fabbisogno nazionale. O la stupefacente longevità della classe politica lucana: sei deputati, sette senatori di destra e di sinistra che fanno politica da sempre, il senatore a vita Emilio Colombo, l'onorevole Salvatore Margiotta, Romualdo Coviello, quasi tradizioni di famiglia con un'unica sorgente di vita: la Democrazia cristiana. 

Possiamo partire da qui, da queste tre caselle per raccontare
il grande gioco d'affari, il Monopoli della Lucania che oggi diventa, con il caso Napoli e quello Abruzzo, una delle tre lame che si conficcano nella carne viva del Pd sotto il nome questione morale. Il fatto è che fuori dai confini di questa regione non ti aspetti che il Texas d'Italia, che tutti ci invidiano, possa essere quasi l'origine della questione morale. «Una regione di qualità e un territorio d'eccellenza», è scritto nel timbro della Regione. 

Balle, tutte rigorosamente balle. Peggio: affermazioni che «fanno venire l'orticaria» a un sacco di gente. Don Marcello Cozzi, responsabile dell'associazione Libera ha affidato la sua rabbia alle 458 pagine del libro «Quando la mafia non esiste-malaffare e affari della mala in Basilicata», cinque edizioni tutte esaurite da maggio, una nuova Gomorra scritta da un prete lucano per nulla amato tra i notabili della città ma invitato dagli emigrati a Berlino e a Innsbruch per parlare del suo libro. L'economista Nino D'Agostino alza la voce se appena dici «Basilicata isola felice»: «E' la più grande mistificazione organizzata dal ceto politico italiano». La Lucania è di per sé «una questione morale». Anzi, è il paradigma della questione morale che sta travolgendo il Pd. Al palazzo di Giustizia di Potenza il pm John Henry Woodcock e il gip Rocco Pavese continuano gli interrogatori dei dieci arrestati per le tangenti alla Total, multinazionale che sta trivellando nel giacimento di Tempa Rossa. L'inchiesta è figlia di un'altra indagine, quelle Toghe Lucane (33 indagati tra politici, amministratori, magistrati e investigatori tra cui Luisa Fasano, moglie dell'onorevole Margiotta) per cui è stato chiesto il giudizio per una sfilza di reati, dall'associazione a delinquere alla corruzione passando per la turbativa d'asta e il peculato. 

Raccontano, i 113 faldoni di Toghe lucane, il comitato d'affari che, secondo il pm De Magistris, in Lucania ma non solo aveva mani e faceva affari ovunque: se c'era un reato il magistrato nascondeva, il poliziotto avvisava l'indagato, il politico di destra e di sinistra continuava a fare pastette. Tutti insieme allegramente, per anni, e che nessuno disturbi il manovratore. Finché arriva il pm Woodcock che già un bello scossone al sistema lucano l'aveva dato nel 1994 con un'altra inchiesta chiamata Iena 2. C'è un giro vorticoso, in queste faccende giudiziarie, di indagati che diventano difensori e poi magari senatori o deputati. Nicola Buccico, ad esempio, ex del Csm in quota An, è indagato in Toghe lucane ma oggi anche difensore dell'imprenditore Ferrara, presunto motore delle tangenti Total nonché sindaco di Matera. Filippo Bubbico, diessino di razza, è indagato in Toghe Lucane ma anche senatore del Pd. Luisa Fasano, ex capo della mobile di Potenza, è indagata in Toghe Lucane ed è moglie di Margiotta (nella foto) indagato per le tangenti Total: Woodcock ne ha chiesto l'arresto, la Camera ha detto no. 

C'è poi, anche Vito De Filippo, Pd, ex Margherita, presidente della Regione indagato prima e adesso di nuovo per le tangenti Total anche se per reati accessori. Giovedì in consiglio ha avuto una specie di crisi di nervi: «Basta, non ce la faccio più questo è un complotto». Sembrava volesse dimettersi. Sembrava. E dire che ha tutta la giunta dimissionaria di fronte alle fabbriche chiuse e ai migliaia senza lavoro. Il gioco di ruolo, controllori che diventano controllati e viceversa, potrebbe andare avanti a lungo. Il paese è piccolo, si dirà. Sbatte il pugno sul tavolo del bar del Grande Albergo Nino D'Agostino.
«Quello lucano - dice - è un grande sistema blindato di corruzione». La diagnosi è spietata: «In 60 anni non c'è mai stato ricambio di ceto politico e gli assessori regionali sono anche funzionari della Regione. 

Tutto ruota intorno alle clientele per cui non conviene a nessuno restare fuori e quindi denunciare. Qui il clientelismo si è evoluto in affarismo per cui non basta più trovare lavoro al figlio di chi te lo chiede e poi ti porta i voti ma tutto questo deve anche produrre grandi affari possibilmente per pochi». La corruzione non è solo tangenti, insiste l'economista, «è anche gestire risorse pubbliche in modo clientelare per cui un sistema economico in piena recessione come quello lucano diventa l'isola felice». Modi così antichi e mimetizzati che poi rischiano di non avere sempre un rilievo penale e di trasformarsi in condanne. «Ed è per questo che bisogna pretendere dalla politica un cambio netto dei suoi protagonisti e dei loro metodi», dice don Marcello che tutti i giorni ha a che fare con clientele, promesse di lavoro in cambio di silenzio, storie di usura dove l'usuraio è il potente che neppure ti immagini. 

Don Marcello è andato a vedere cosa c'è dietro droga, usura, disagi. Nel suo libro racconta le mille contraddizioni di queste regione, i 200 condannati definitivi per mafia in meno di 15 anni, i morti ammazzati su cui non sono state fatte indagini, i politici indagati ma sempre al loro posto.
«A chi fa comodo - si chiede - che questa terra sia raccontata come l'isola felice mentre le gente scappa in cerca di lavoro? Chi controlla - ad esempio - che non vengano fatte estrazioni in nero dai pozzi? Perché non ci sono le strade?». Scriveva Carlo Levi, che Mussolini mandò al confino nei calanchi tra Grassano e Aliano: «Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore in comprensivo». Cristo s'era fermato a Eboli. Adesso in qualche paesino della val d'Agri. Per arrivare in Lucania c'è solo una strada, il treno arranca e a volte a Salerno passa il testimone al bus. Meno male che c'è la Fiat a Melfi e la Natuzzi divani a Matera altrimenti, nonostante la ricchezza di materia prime, nessuno ha saputo creare una manifattura. Tanto si va a lavorare nel pubblico e l'agricoltura è assistita. Il turismo dà fastidio. In certi paesi non arriva l'acqua che pure viene venduta alla Puglia. E neppure il gas che qui sotto ha giacimenti enormi. E lo chiamano Texas d'Italia. La Lucania saudita.

 

Tratto da:  EUROPA -  Euroquotidiano.it

18 novembre 2008

Nelle ex isole felici del Sud
torna il “brigantaggio”

Cara Europa, leggo notizie allarmanti in merito alle infiltrazioni malavitose e al neobrigantaggio, stavolta briganti politici, che infesta due regioni fin qui ritenute “isole felici”: la Basilicata, governata dal centrosinistra, e il Molise, governato da una satrapia di centrodestra. Mi chiedo come sia possibile che più l’Italia va avanti nella sua europeizzazione e più il Mezzogiorno intero (ormai) va indietro. Anche se la malavita usa il kalashnikov e non il trombone, anche se i dirigenti del malaffare si ricollegano non più (credo) alla capitale ma al superfeudatario regionale, governatore o no, a me sembra che questa zavorra rappresenti per il nostro paese la stessa palla di ferro al piede dello stato unitario nei primi decenni di vita.
Mi auguro di sbagliare.
OVIDIO SANTACROCE, POTENZA

Caro Santacroce, purtroppo lei non si sbaglia. Da giovani abbiamo imparato la profezia del grande conterraneo Giustino Fortunato: «L’Italia sarà quel che sarà il Mezzogiorno».
Sentenza senza appello: adesso anche le terre «dove non succede mai niente», le «isole felici» (Abruzzo, Molise, Basilicata) affondano nella malavita dei colletti bianchi, come le Seychelles nei mari delle vacanze. Non bastavano le gesta (presunte) della giunta Del Turco. La quasi totalità della stampa, impegnata a tormentare il padre di Eluana Englaro, nasconde al paese che le procure di quattro regioni, oltre quelle di Potenza e Matera, indagano sulla Basilicata; e che esiste perfino un «Molise degli affari» («Il Molise ha ruggito», ironizzò una volta Montanelli), con 112 indagati per corruzione, falso, associazione a delinquere.
In testa il governatore Jorio (Fi). C’è anche il colonnello Coppola comandante provinciale dei carabinieri di Campobasso, arrestato. Uno dei suoi predecessori, in anni in cui fui deputato di quella città (1997-2001), mi diceva: «Non s’illuda, il Molise non è più l’isola felice di cui si parla nei discorsi dei politici». E si riferiva solo alla droga. A qualche suo successore sembrerebbe sia sfuggita l’“infelicità” della regione, e si sarebbe messo al servizio della malavita in colletto bianco, oggetto dell’inchiesta che lo ha portato carcere. In passato, contro carabinieri che volevano fare il loro dovere, si scatenarono “i Ceausescu del Basso Molise”, cioè l’ex deputato Udc e sindaco di Termoli Giandomenico e la sua signora, primaria ostetrica nell’ospedale cittadino (naturalmente obbiettrice di coscienza in pubblico e praticante di aborti in privato, condannata con sentenza definitiva). Questi Ceausescu – leggo sul Corriere della sera – avevano in odio il capitano di Termoli Fabio Muscatelli, che svolgeva indagini sul loro conto, e si rivolsero al comandante provinciale colonnello Coppola (quello ora arrestato). Il Muscatelli fu prima comandato in missione in Kossovo, poi in Iraq. Infine, «per incompatibilità ambientale», mandato dall’Arma a fare il «magazziniere» (?) a Livorno. Ma il Tar del Lazio ha dato torto al ministero della difesa, quello di La Russa, e ragione a Muscatelli, che dunque tornerà a Termoli. Dove i cittadini lo amano, mentre i ras dell’intera connection della regione molisana lo odiano.
La cosa più triste, per chi crede nello stato, è che nell’inchiesta dell’Antimafia di Campobasso e della procura di Larino sono coinvolti ben 20 uomini delle forze dell’ordine. Nell’isola felice non si gioca più a guardie e ladri, perché guardie e ladri si sono messi insieme. Alcune guardie e molti ladri. Fra i quali assessori e consiglieri regionali e comunali, sindaci o ex sindaci. Un bel viatico per il federalismo all’italiana. Giustino Fortunato è morto da tempo, Umberto Bossi può fregarsi le mani, quest’Italia è davvero senza senso. Non so se ai partiti romani interessi.

Federico Orlando

 

 

 

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