Ci
sono pensionati al minimo, pensionati “normali” e pensionati d'oro. Tra
quest'ultima categoria figurano senza dubbio i politici che in passato hanno
ricoperto cariche parlamentari o nelle Camere della Repubblica o nel Parlamento
europeo o semplicemente in Consiglio regionale. L'esser stati eletti in tutti e
tre gli organismi istituzionali dà diritto a singole pensioni che sono
cumulabili tra di loro dando vita ad un “maxi vitalizio”. Prendiamo in
considerazione i pensionati del Parlamento italiano (Camera e Senato) in cui
figurano circa 1400 deputati e circa 900 senatori. I deputati il cui mandato
parlamentare è iniziato successivamente al 1996 conseguono il diritto alla
pensione al raggiungimento dei 65 anni. L'unico vincolo è quello della
contribuzione: devono essere stati fatti versamenti per almeno cinque anni,
quelli di una legislatura piena, ma l'età minima per il vitalizio scende di un
anno per ogni ulteriore anno di mandato oltre i cinque. Sino a raggiungere il
traguardo dei 60 anni. Per gli eletti prima del 1996, poi, resta valida la
normativa in vigore antecedentemente, che stabilisce che si ha diritto al
vitalizio all'età di 60 anni, riducibili a 50 utilizzando tutti gli anni di
mandato accumulati oltre i cinque minimi richiesti. Per cui con oltre tre
legislature, per esempio 20 anni di contributi, si può andare in pensione
addirittura sotto i 50 anni. Per quanto concerne le due Camere, qualche anno fa,
è stata varata una riforma previdenziale con la quale gli eletti a partire dal
2001 hanno diritto alla pensione solo a 65 anni ed a condizione di aver svolto
un mandato di cinque anni. Ma per coloro che hanno conquistato lo scranno prima
del 2001, il privilegio antico di riscuotere il vitalizio a 60 anni con una
legislatura, a 55 con due e addirittura a 50 anni dopo tre mandati è rimasto
immutato. Tuttavia gli eletti dal 2001 che avranno collezionato un secondo
mandato potranno anch'essi scendere a 60 anni. E' legittimo chiedersi, in tempi
di ristrettezze, dove si andrà a parare? Visto che Montecitorio ha in carico
circa 1400 pensionati che gli costano circa 130 milioni di euro a fronte dei 10
milioni di entrate relative ai contributi versati dai deputati in carica.
Altrettanto critica è la situazione al Senato che con le sue quasi 900 pensioni
spende ogni anno quasi 60 milioni a fronte di circa cinque milioni di entrate
ricavate dai versamenti dei senatori in servizio. Un disavanzo appianato ogni
anno dallo Stato. Fino a quanto potrà reggere questo sistema? A tutto questo,
ovviamente, “contribuiscono” anche i parlamentari in pensione della
Basilicata che sono 29. Con una legislatura il vitalizio ammonta a 3108 euro,
con due a 4725, con tre a 6590, con quattro a 8455 e con cinque o oltre, a ben
9947 euro. Tutte queste cifre si riferiscono al lordo. Nella nostra piccola
regione ce ne sono di tutte le età e logicamente di tutte le estrazioni
politiche. Tra questi l'ex presidente della Regione Basilicata, Tonio Boccia,
che di legislature ne ha fatte tre: alla Camera dal 1996 al 2006 e al Senato
fino al 2008. Poi c'è Giampaolo D'Andrea che con 14 anni ha un vitalizio lordo
di 6217 euro. Poi troviamo l'ex democristiano Mario Di Nubila con una legilstura
al senato; Saverio D'Amelio, 76 anni, sindaco di Ferrandina e consigliere
provinciale, ha fatto 4 legislature al Senato; poi c'è il cinquantasettenne
potentino Peppino Molinari, uno dei padri del centrosinistra lucano della
seconda Repubblica, che dal 2009 percepisce un netto di quasi tremila euro, a
fronte di dieci anni alla Camera nel gruppo dell'Ulivo ('96-'06); tra gli ex
onorevoli anche il segretario regionale dei Popolari uniti, il 76 enne Antonio
Potenza che vanta una legislatura alla Camera dal 2001 al 2006; tra i pensionati
anche il medico montalbanese Domenico Izzo, deputato dal '96 al 2001; poi c'è
il materano Angelo Raffaele Ziccardi con 15 anni di Senato; Antonio Vozzi, di
Chiaromonte ex senatore socialista per due mandati nella Prima Repubblica.
Nell'elenco troviamo ancora l'allora forzista Egidio Ponzo, di Latronico, che
vanta una legislatura al Senato ed una alla Camera; poi c'è l'aviglianese Vito
Gruosso con tre mandati a Palazzo Madama; l'ex sottosegretario all'Economia
dell'ultimo governo Prodi, Mario Lettieri con 10 anni trascorsi a Montecitorio;
poi l'ottantenne avvocato materano Michele (detto “Ninì”) Tantalo con 6
legislature alla Camera; il preside socialista Nicola Savino con due mandati
alla Camera; Angelo Sanza ex Dc, poi Fi ora Udc con 36 anni di Parlamento tra
Basilicata e Puglia; il commercialista policorese Francesco Barra ex Msi alla
Camera dal '94 al '96; Antonino Monteleone di Montalbano Jonico Msi-An, con due
mandati al Senato; poi la potentina Magda Cornacchione ex Pci, 5 anni alla
Camera, l'ingegnere materano ex Pci, Emanuele Cardinale 10 anni al Senato;
l'avvocato Donato “Tuccino” Pace con 5 anni alla Camera; il lauriota
senatore per tre mandati, Domenico Pittella, socialista; poi Silvano Micele 10
anni al Senato; poi Valerio Mignone, cardiologo del lagonegrese, anche lui due
mandati al Senato; Giacomo Antonio Schettini, Pci, 5 anni a Montecitorio; poi
Donato Michele Scutari, 86 anni di San Costantino albanese, amico di Giorgio
Amendola per tre volte al Senato; due mandati anche per l'allergologo materano,
Corrado Danzi due volte in Senato per l'Udc; il novantenne materano Michele
Guanti due volte in Senato, Piero Di Siena di Rionero anche lui due volte in
senato ed infine Pasquale (detto “Lillino”) Lamorte, presidente della Camera
di Commercio di Potenza che con 25 anni alla Camera per la Dc, ha un vitalizio
lordo mensile di 9387 euro. Pierantonio Lutrelli
Martedì
05 Luglio 2011 09:52
Queste pensioni d'oro per queste scene:
Blog Repubblica
Da
tre giorni l’aula della Camera dei Deputati è tornata teatro di tafferugli e
tumulti. Fascicoli di emendamenti che, lanciati dai deputati di SeL, volano
verso il banco della Presidenza, rissa in aula tra deputati di Lega e Ncd,
assalto dei deputati pentastellati allo scranno del presidente Boldrini con
tanto di epiteti volgari e ingiuriosi. Infine, vera e propria rissa notturna,
l'ultima, tra deputati M5S e del Pd e tra deputati Pd e di Sel. Risultato: 13
deputati espulsi e due in infermeria. Si discute la riforma istituzionale (del
Senato e Titolo V) e l’oggetto del contendere è la fine dei tempi (detti ‘contingentati’)
delle opposizioni sui lavori in aula, la richiesta di maggiori tempi per
presentare emendamenti e subemendamenti, l’offerta della maggioranza di un
terzo dei tempi in più ma in cambio del ritiro di tutti i subemendamenti, il
rifiuto delle opposizioni e, alla fine, la richiesta e l’imposizione, da parte
di governo e maggioranza, della cd. Seduta ‘fiume’ (a oltranza, notti
comprese) fino a quando la riforma non verrà approvata. La seduta ‘fiume’,
infatti, anche se poco usata nella storia repubblicana, permette di bypassare
tutti i nuovi subemendamenti che vengono presentati a ogni ripresa di seduta,
congelandoli a quelli già presentati, anche se al prezzo di un tour de force
non usuale per i deputati in aula. L’intreccio delle due cose, tafferugli e
seduta fiume, fa venire in mente precedenti ed episodi del passato che si
perdono, in molti casi, nella notte dei tempi, ma che forse meritano essere
ricordati.
3
dicembre 1947: durante l'Assemblea costituente, la prima rissa della storia
repubblicana.
Nonostante
lo ‘spirito costituente’ che animava forze politiche di segno ideologico
molto diverso (Dc da un parte, Psi e Pci dall’altra) nello scrivere la
Costituzione, anche durante i lavori dell’Assemblea Costituente (1946-’47)
non mancarono intemperanze e scontri verbali. Il 3 dicembre 1947 si discuteva,
in seno all’assemblea costituente, l’ultimo articolo della Costituzione, il
131, quello sulla forma repubblicana ‘immutabile’. Presiedeva l’on.
Umberto Terracini (Pci). Lo scontro si anima all’improvviso tra deputati
monarchici (Covelli) e comunisti (Rossi). Covelli: “Comunisti! Assassini!”.
I deputati comunisti Pajetta, Moranino, Moscatelli, Invernizzi: “Fascisti!
Carogne! Tornate nelle fogne!”. Terracini: “Onorevoli colleghi! Cercate di
rimanere ai vostri posti! Ma santa miseria!”. Terracini suona la
‘martinella’ (la campanella che veniva usata e suonata dal presidente di
turno per richiamare i deputati indisciplinati o sospendere la seduta) e attiva
la ‘sirena’ (un bottone rosso che indicava ai commessi che era il momento di
sgomberare la tribuna per evitare che il pubblico casuale assistesse a
spettacoli ritenuti ‘indegni’). Segue la prima rissa che, a memoria d’uomo
si ricordi, della storia repubblicana: tavolette che sbattono, lancio di oggetti
da una parte e dall’altra, urla, spintoni e veri e propri incontri di pugilato
a suon di pugni e calci tra ex monarchici da una parte, comunisti dall’altra.
Alla fine, ‘la Camera approva’ (l’art. 139).
18
marzo 1949: adesione al Patto Atlantico, dc e comunisti si affrontano a mani
nude. E si menano.
Il
governo De Gasperi, che ha vinto le elezioni del 1948 e mandato le sinistre
all’opposizione, presenta ufficiale richiesta di adesione al Patto atlantico
(Nato) a gennaio 1949 e e chiede un voto di ratifica in Parlamento che, dopo
l’approvazione, porterà all’adesione alla Nato il 4 aprile. Si inizia con
la seduta fiume del 16 marzo e si finisce il 18 marzo 1949, sempre alla Camera
dei Deputati. La seduta definitiva, quella dei tumulti, è lunghissima, da
incubo. Inizia il pomeriggio di mercoledì 16 e termina la sera di venerdì 18:
52 ore ininterrotte di dibattito. Anzi, interrotte continuamente da screzi, urla,
insulti e scontri fisici. Il presidente dell’Assemblea è Giovanni Gronchi (Dc),
cui si alternano i vicepresidenti Fuschini, Martino e Targetti. Togliatti lascia
mano libera ai suoi di ‘scatenare l’inferno’ mentre la consegna dei
capigruppo dc è di non cedere alle provocazioni. I comunisti cercano, in ogni
modo, di bloccare i lavori, chiedendo in continuazione delle ‘sospensive’ ma
i democristiani le bloccano e respingono ogni volta. All’una di notte del 16
marzo il primo scontro fisico. La parola va al presidente del Consiglio De
Gasperi, ma dai banchi della sinistra si comincia a urlare in modo assordante
“Abbasso il Patto! Abbasso la guerra!”. De Gasperi resta immobile e cerca
con lo sguardo Togliatti: i due si sfidano con gli occhi. Calandrone (Pci)
intona l’inno di Garibaldi, i democristiani rispondono con l’Inno di Mameli,
i comunisti passano all’Internazionale. Gronchi sospende la seduta, ma i
comunisti partono all’assalto dei banchi dc: al vicepresidente del consiglio,
Piccioni, malato di cuore, viene quasi un infarto, gli altri vengono alle mani.
Gronchi decide di far riprendere subito la seduta per placare gli animi, ma a De
Gasperi che rinfaccia il Cominform (l’alleanza dei partiti comunisti al Pc
bolscevico dell’Urss) al Pci, Togliatti stesso urla “Buffone!”. E’ notte
fonda: i comunisti si alternano come oratori, tutti iscritti a parlare, i dc
organizzano i turni di guardia in aula, gli altri gruppi, pure i socialisti,
cedono: vanno a dormire. Divani e poltrone del Transatlantico sono tutte
occupate dai democristiani, allora il capogruppo del Pci, Antonio Giolitti, ha
il colpo di genio: fa urlare ai suoi ‘si vota, si vota!’, quelli si
svegliano per correre in aula, i comunisti occupano i divani per riposare. La
Buvette sforna panini e caffé a ripetizione, arriva l’alba. Quando il 17
marzo è ormai un giorno pieno di sole, nuovi scontri in aula tra la deputata
comunista Viviani (“Mascalzone!”) e il dc Leone (“Stupida!”), nuovi
ostruzionismi, nuove piccole risse. Torna la notte: Pajetta è afono, i deputati
dormono sui banchi, le luci sono quasi tutte spente, la buvette viene presa
d’assalto specie quando, al mattino, arrivano i cornetti. La votazione finale,
per chiamata nominale, inizia alle ore 16 del 18 marzo 1949 dopo 48 ore di
dibattito ininterrotto e quattro di brevi sospensioni. Gronchi legge i risultati:
‘la Camera approva’. Per qualche istante regna un silenzio surreale, poi
partono i cori dai banchi della sinistra (“Viva la pace! Abbasso la guerra!
Traditori!”), poi tutti in piedi a intonare l’inno di Garibaldi (“Va fuori
d’Italia, va fuori stranier!”). dai banchi della Dc parte “Fratelli
d’Italia”. La tensione è alle stelle. De Gasperi abbandona l’aula seguito
dai membri del governo, Togliatti resta immobile nel suo banco. Gronchi prova a
sospendere la seduta, ma ormai il gong è suonato. Un comunista estrae un
dollaro e lo sventola verso i banchi della Dc. Pajetta serra i pugni e, con
dietro Amendola, va verso i diccì, ma la scintilla vera parte dai banchi del
governo che confina con il settore del Pci. Semeraro (Pci) e Malvestiti,
sottosegretario, iniziano a darsele di santa ragione: pugni e schiaffi. E’ il
segnale. I socialisti e comunisti si lanciano verso il centro dell’aula, i
diccì pure, i commessi vengono travolti. Giuliano ‘Giaguaro’ Pajetta,
fratello minore di Giancarlo, si lancia a pesce sulle teste dei colleghi.
Seguono schiaffi, pugni, calci. Volano sedie e tavolette, cassette di legno e
poltrone. Il deputato Tomba (dc), assai corpulento, mena mazzate a tutti.
Saranno quindici minuti di follia collettiva.
4
dicembre 1952: Legge truffa/1. Alla Camera vanno in onda quindici minuti di vero
pugilato.
Siamo
nel 1952, si avvicinano le elezioni politiche del 1953 e il governo De Gasperi
è in difficoltà: screzi con gli alleati minori e calo di popolarità mentre le
sinistre avanzano. De Gasperi prova a uscirne proponendo la cd. ‘legge truffa’,
come verrà ribattezzata dalle opposizioni: una legge che assegna il 65% dei
seggi al partito o coalizione che raccoglie il 50,1% dei voti. Alle elezioni
politiche del 7 giugno 1953, peraltro, la ‘legge truffa’ non scatterà,
anche se per un soffio, e resterà in vigore, per altri 40 anni, il sistema
proporzionale puro caratterizzante la I Repubblica. Ma la legge va presentata e
votata dalle Camere, prima di poter entrare in vigore. L’opposizione sa di
avere una sola arma a disposizione: l’ostruzionismo nel tentativo di
rallentare i tempi e ‘svegliare’ il Paese sul rischio di ‘svolta
autoritaria’. La scena della più grande, plateale e incredibile
‘maxi-rissa’ della storia repubblicana si svolge però in due tempi:
dicembre 1952 alla Camera e marzo 1953 al Senato. Il 4 dicembre 1952 alla Camera
è tarda sera quando si sta discutendo una legge innocua, il risarcimento dei
danni di guerra ai reduci. Prende la parola il dc Scalfaro e chiede di invertire
l’ordine dei lavori del calendario: la richiesta di modifica dei lavori è
data dalle festività natalizie in arrivo, dal timore dell’ostruzionismo e dal
fatto che De Gasperi, nel 1953, sa di avere le elezioni. Socialisti e comunisti
mangiano la foglia. Togliatti e Gullo (Pci), ma pure Nenni (Psi), intervengono
autorevolmente per opporsi al cambio in corsa del calendario dei lavori e per
lungo tempo (mesi). Il dibattito in punta di regolamento, sotto la regia del
vicepresidente di turno Martino (Dc), sulla richiesta di sospensiva in merito
all’inversione dell’ordine dei lavori, andava avanti da due ore in modo
placido, quando scoppia il finimondo. Sono le 22.30. Togliatti scatta in piedi,
sbatte la tavoletta del seggio e urla: “Questo non è più un Parlamento!”.
Martino sospende la seduta, fa sgomberare la tribuna e se ne va ma non prima di
aver schierato i commessi davanti ai banchi del governo. I deputati comunisti,
però, sono una marea irrefrenabile: scendono urlando dai loro scranni a
centinaia, travolgendo tutto e tutti. Anche il governo, De Gasperi in testa,
batte in ritirata tranne i ministri La Malfa e Pacciardi. I fratelli Pajetta
guidano l’assalto: strappano microfoni, i tavoli degli stenografi vengono
divelti e i loro fogli volano in aria. I dc, il corpulento Tomba in testa che
lancia un cassetto contro gli avversari, iniziano a reagire. De’ Cocci (nomen
omen) solleva una sedia e la scaraventa contro ‘il nemico’ ma becca un
commesso, Faraldi prende una guantiera d’argento e la fa volare in aria, per
fortuna senza colpire nessuno. Il corpo a corpo tra i deputati più dotati
fisicamente va avanti a lungo, quasi 15 minuti di rissa: da una parte i
comunisti Pajetta jr e sr, Audisio e Amendola, dall’altra i dc Tomba, Caiato,
Spiazzi. Alla fine, si conteranno tre feriti di entrambe le parti che verranno
curati in infermeria.
29
marzo 1953: legge truffa/2. Al Senato vola di tutto e i comunisti aggrediscono
il povero Ruini.
Il
29 marzo 1953, domenica delle Palme, sempre in merito di approvazione (questa
volta finale) della legge truffa, ma al Senato, va in onda quella che ancora
oggi è la rissa più lunga della storia repubblicana: 40 minuti di botte da
orbi. Il dibattito sulla nuova legge elettorale a Montecitorio era iniziato il 7
dicembre 1952 e si era concluso solo il 21 gennaio 1953 grazie
all’ostruzionismo delle opposizioni social-comuniste ma anche laiche e
repubblicane dopo settanta ore di dibattito. Al Senato la legge arriva l’8
marzo. Si voterà in giugno e il tempo stringe. De Gasperi, che teme le insidie
di un Senato dove la maggioranza della Dc non è così ferrea come alla Camera,
vuole mettere la fiducia sul testo intero del disegno di legge, ma la richiesta
viene giudicata inammissibile dal presidente del Senato, Giuseppe Paratore, che
dopo poco si dimette, temendo scontri al fulmicotone. Al suo posto il 25 marzo
viene eletto Meuccio Ruini, che ave guidato anche la Costituente. Il 26 marzo
inizia la vera discussione sulla legge elettorale, ma gli oratori della sinistra
si alternano a prendere la parola, grazie al Regolamento sfruttato in tal senso
giorni prima, su una legge a favore delle...mondine. Chiaro l’obiettivo:
prender tempo e innervosire l’avversario. Le dichiarazioni di voto sulla legge
per le mondine vanno avanti ininterrottamente per tre giorni, da giovedì 26
marzo a sabato 28, da parte dell’opposizione, organizzata e guidata dal
socialista ed ex partigiano Sandro Pertini. Palazzo Madama si trasforma in un
bivacco sporco e maleodorante di senatori, commessi e giornalisti. Domenica 29
marzo, domenica delle Palme, è il giorno del Giudizio. Finalmente, la legge
sulle mondine viene votata (e ovviamente non passa) dopo tre giorni di
dichiarazioni di voto delle opposizioni. Il governo è presente al gran completo.
Nel pomeriggio, Ruini sta per passare all’esame della legge elettorale, quando
i senatori comunisti, tra cui Terracini, chiedono di intervenire in via
preliminare “per fatto personale”. Ruini nega la possibilità. L’aula
esplode. Socialisti e comunisti urlano “Traditore! Venduto ai gesuiti!
Mascalzone! Porco!”. Scoccimarro (Pci), come morso dalla tarantola, inizia ad
alzare i pugni e gesticolare contro Ruini. Si scatena il finimondo. I commessi
cercano di arginare la furia dei comunisti che si scagliano contro i banchi del
governo. Il comunista Colla afferra il socialdemocratico Bocconi e gli sferra un
montante mentre copie del regolamento volano da tutte le parti. De Gasperi e
Scelba abbandonano l’aula. Il povero Ruini è oggetto di un vero tiro a segno
e utilizza la borsa per riparare la testa. Sotto di lui, sono rimasti i ministri
La Malfa e Pacciardi e il sottosegretario di De Gasperi, Andreotti. Impassibile,
le carte ordinate davanti a sé, usa una precauzione: si mette in testa un
cestino dell’immondizia per ripararsi dai colpi. Ruini riprende la parola e
indice la votazione per appello nominale mentre Scoccimarro continua a urlargli
contro e Negarville e altri deputati del Pci, sgusciando tra i commessi, si
aggrappano alle colonnine di legno che decorano la Presidenza e circondano Ruini
al grido di “Venduto! Veduto!” e “Porco! Porco!”. Il senatore Palermo (Pci)
riesce impossessarsi del sacchetto delle palline per l’appello nominale e le
butta per aria. I commessi riescono a creare una barriera difensiva attorno a
Ruini con le poltrone dei segretari d’aula. Menotti (Pci) stacca come una
furia una colonnina dorata dal banco della presidenza e la scaglia contro Ruini
che trova un commesso che si immola per lui e se la prende in pieno. La
votazione prosegue tra le urla. I senatori Castagno e Bei staccano le loro
tavolette dal banco e inizano a batterle incessantemente come tamburi di guerra.
La senatrice Merlin viene colta da un attacco isterico. Lussu raggiunge i banchi
del governo, prende alle spalle la Malfa e gli molla due ceffoni. Pacciardi
perde gli occhiali in un’altra colluttazione, Spezzano (Pci) strappa un
microfono e lo lancia, ormai al solito, contro Ruini. Il quale, alla fine, legge
i risultati: ‘il Senato approva’. Bilancio: 78 ore di seduta ininterrotta,
tre microfoni divelti, venti tavolette di scranno distrutte, due poltrone e tre
macchine per stenografi distrutte, tre feriti, 200 mila lire di danni in totale.
4
dicembre 1981: loggia P2. Per colpa di un vignettista, Vincino, i Radicali
insultano la Jotti.
Curiosamente,
negli anni Sessanta e fino alla fine degli annii Settanta, in aula succede poco,
dal punto di vista delle risse e delle incontinenze verbali. Bisogna aspettare
il 1978, ma con il Pci passato in maggioranza nei governi di solidarietà
nazionale, la scena se la prendono i Radicali. Siamo nel 1981, seduta del 4
dicembre, e alla Camera si discute la legge di scioglimento della P2 in
attuazione dell’art. 18 della Costituzione, ma il fatto scatenante è la
presenza del disegnatore satirico del ‘Male’, Vincino, nelle tribune
parlamentari e non in quelle riservate alla stampa. Solo che nelle tribune del
pubblico è vietato scrivere. L’onorevole Tessari (Pr) rimprovera alla Jotti,
presidente dell’Assemblea, di aver proibito a Vincino di poter assistere e
scrivere dalla tribuna. Tessari, Aglietta e Cicciomessere si scagliano contro i
banchi della Presidenza a suon di insulti. I comunisti scendono nell’emiciclo
a difesa della loro presidente, offesa dai radicali. Cicciomessere con un salto
si proietta sui banchi della Presidenza e finisce ai piedi del sottosegretario
Costa che si alza e fa precipitare Cicciomessere a ruzzoloni nell’emiciclo
dove i comunisti provano a colpirlo. Risultato: Cicciomessere espulso per dodici
giorni e discussione interrotta.
20
ottobre 1994: riforma della Rai. An all’assalto di Paissan, “frocio,
pederasta e busone”...
Cambia totalmente lo scenario, arriva la II
Repubblica. Lo scontro verte tra berlusconiani, al governo, e antiberlusconiani
dell’Ulivo, all’opposizione. Si discute la riforma della Rai (‘salva Rai’).
Siamo alla seduta del 20 ottobre 1994 e presiede l’onorevole Pivetti (Lega).
L’aula si trasforma in una bolgia dantesca durante l’intervento dell’on.
Mauro Paissan (Verdi), relatore del dl e vice presidente della commissione di
Vigilanza Rai, che scatena l’ira dei deputati di An cui affibbia la
definizione di “tangentari e tangentisti”. Francesco Storace inveisce subito:
“Vergognati, frocio!”. Altri gli urlano “Bastardo!”. La Pivetti prega
Paissan di continuare e schiera i commessi in aula, ma gli chiedere di
“smetterla di provocare”. L’on Passetto (An) aggira i commessi e prende
Paissan per il collo, strattonandolo mentre i suoi colleghi gli continuano a
urlare “Frocio!. La Pivetti sospende la seduta, ma ormai l’aula è già un
campo di battaglia: Storace e La Russa guida una parte dei deputati di An al
centro dell’emiciclo per distrarre i commessi mentre un gruppo di loro
colleghi (Pasetto, Landolfi, Paolone) li aggira alle spalle. I microfoni vengono
divelti, i fascicoli volano in aria e i deputati
del Pds circondano un Paissan sempre più terreo in volto, ergendosi a sua
difesa. Zaccheo prende di mira un commesso, Paolone affronta il verde Reale e lo stende con un pugno mentre almeno altri
dieci fanno a botte. Volano calci, pugni, spintoni e insulti mentre dalla
sinistra si urla “Squadristi! Fascisti!”. I commessi scortano Paissan fuori
dall’aula. Storace profferisce parole destinate agli annali: “Quella checca
di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, io non lho
toccato. Vi sfido a trovare le mie impronte digitali sul suo culo!”. Buontempo,
detto ‘er Pecora’, si difende così: “Io non gli ho fatto niente perché
non mangio i finocchi”. Morselli (An): “Paissan, fai bene a farti scortare:
sei un pusillanime porco, pederasta e busone!”. Bonsanti commenta: “I topi
sono usciti dalle fogne!” e Mussi di rincalzo: “sì, i topi fascisti!”.
24
gennaio 2008: fine del governo Prodi. I berluscones festeggiano con champagne e
mortadella.
Il II governo Prodi, che ha sempre avuto vita
stentata, da quando è nato, appena due anni prima, affronta il voto di fiducia
dell’aula di palazzo Madama, dove si regge solo grazie al voto dei senatori a
vita. L’Udeur di Mastella ha deciso di ritirargli la fiducia e il finale
appare scontato, ma c’è spazio per l’ennesimo, ultimo, dramma farsesco da
raccontare. Prende la parola il senatore Nuccio Cusumano (Udeur) e, a sorpresa,
annuncia che voterà con il governo a differenza del suo gruppo. Nino Strano
(An), catanese, inizia a urlargli contro “Sei un cesso!” per ben tre volte e
poi, ancora, “Sei un cesso corrotto e frocio!”, poi “Sei una merda!”
(altre tre volte). Cusumano barcolla, Strano insiste: “Sei un frocio mafioso!
Sei una checca squallida! Venduto!”. Il capogruppo dell’Udeur Tommaso
Barbuto, fedelissimo di Mastella, pensa che ci debba mettere del suo e gli urla:
“Sei un cornuto e venduto! Sei un pezzo di merda!”, accompagnando le parole
con sputi vari e gestacci.
Cusumano non regge all’emozione e si accascia sul seggio: è svenuto. La
seduta è sospesa. Quando riprende, e si vota, Marini annuncia l’esito della
votazione: ‘il Senato non approva”, il governo Prodi è caduto. Tra le urla
di gemito della ormai ex maggioranza e quelle trionfanti dell’opposizione,
c’è spazio per l’ultimo atto osceno: il senatore di An Domenico Gramazio
estrae dallo scranno due bottiglie di champagne mentre l’ormai incontenibile
Nino Strano estrae, sventola e finge di mangiare due fette di mortadella. Il
presidente dell’assemblea, Franco Marini, cerca inutilmente di riportare la
calma in aula: “Togliete via quella bottiglia, non siamo in osteria!”. Cala
il sipario.
Commento
di un connazionale:
Nei
primi anni della repubblica delle banane, comprate da altre repubbliche
bananifere che le producono almeno per davvero, i comunisti erano veri non
sapendo chi fosse in realta' stalin e pensando che i coccodrilli volassero
tendevano ad unirsi al dittatore russo pensando di far bene dopo aver assistito
ad orrori inenarrabili commessi dai fascisti.
Col passare degli anni i comunisti sono scomparsi capendo cosa hanno rischiato
cercando di allearsi con i russi, seppur con la scusante vera ed ovvia di
combattere lo schifoso fascismo. I fascisti, vera feccia, non hanno compreso
nulla perche' e' nella loro indole essere cosi', non hanno alcuna scusante sono
beceri furfanti della peggiore specie gia' di loro natura! Vero che ancor oggi
mentre i cosiddetti comunisti sono scomparsi, rimangono pochi sedicenti che
dicono di essere dell'area di sinistra ....i fascisti rimangono tali e
dimostrando che chi disse che i 2 poli alla fine si toccano sono c.lo e camicia
col dittatore putin, vero comunista, che sta tentando di fare in ucraina quello
che fece stalin ed accoliti in Ungheria, appoggiato allora dai veri comunisti
italiani, per fortuna scomparsi,...almeno loro!!! HAUGH.
PROSEGUIREMO
QUESTA PAGINA CON
GLI
ALTRI BENEFICIARI
E COMPLICI ESECUTORI CHE OPERANO NEL SILENZIO ...
Ecc.
Tutta la storia
di questa tragedia dovuto alla decisione degli URICCHIO di acquistare proprietà
a POMARICO (MATERA), Meridione d'ITALIA, per tornare nel paese NATIVO sul sito
QUESTA
PAGINA È IN ALLESTIMENTO !